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Questo articolo è stato pubblicato il 23 novembre 2011 alle ore 07:51.
L'ultima modifica è del 23 novembre 2011 alle ore 07:35.

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Il 20 gennaio 2009, giorno dell'ingresso di Barack Obama alla Casa Bianca, il debito pubblico americano era di diecimila e rotti miliardi di dollari. Meno di tre anni dopo, è di oltre quindicimila miliardi. George W. Bush l'aveva ereditato da Bill Clinton a poco più di cinquemila miliardi e, otto anni dopo, l'ha consegnato a Obama raddoppiato. In questa spaventosa crescita dell'esposizione finanziaria c'è il senso della crisi che scalda Washington, ma anche la fotografia di un sistema politico già pronto a risolvere il problema con le elezioni presidenziali del novembre 2012. La crisi finanziaria del 2008, due recessioni, gli stimoli all'economia, il salvataggio di banche e imprese, le guerre combattute dopo l'11 settembre 2001, la riforma sanitaria e i tagli fiscali ideati da Bush, e poi rinnovati da Obama, hanno contribuito a creare il mostro a dodici zeri. Oggi non vale più il vecchio adagio di Ronald Reagan secondo cui il debito è abbastanza grande da poter badare a se stesso. Sia Obama sia i suoi sfidanti riconoscono l'emergenza e sembrano decisi a risolverla. Il problema è come. Il debito si può ridurre in due soli modi: tagliando le spese o aumentando le entrate, oppure con una combinazione dei due. Tagliare le spese vuol dire ridurre il budget del Pentagono che è il principale fornitore di posti di lavoro negli Usa, colpire pensioni e sanità e rinunciare a ulteriori stimoli pubblici in un momento in cui l'economia difficilmente ne farebbe a meno. Aumentare le entrate vuol dire far pagare più tasse, con l'evidente rischio di rallentare la ripresa. I democratici sono contrari ai tagli e favorevoli a maggiori imposte ai più ricchi. I repubblicani pensano che la ricetta giusta sia tagliare la spesa - tranne quella militare - e mantenere basso il prelievo fiscale.

I mediatori ci provano, ma non sono in grado di concedere a sufficienza alla controparte. Uno dei motivi dello stallo, secondo David Brooks del New York Times, è il cambiamento culturale del sistema politico americano che un tempo era come il sistema solare: c'era un partito di maggioranza (il partito Sole che guidava il Paese) e c'era un partito di minoranza (il partito Luna che brillava di luce riflessa). Ora non è più così. Nessuno dei due partiti è maggioranza vera. Nessuno dei due è capace di dettare l'agenda politica. Nessuno dei due è Sole. Sono entrambi Luna. Credono entrambi di essere minoranza oppressa e hanno sviluppato una mentalità minoritaria che considera il compromesso al pari del tradimento. Con questa consapevolezza, Washington si è affidata ai tecnici per ridurre il debito: prima alla Commissione presidenziale Bowles-Simpson, poi al super comitato del Congresso. I tentativi sono falliti perché qualsiasi proposta escogitata in quei prestigiosi consessi deve fare i conti con i voti alla Camera e al Senato. Quei voti non ci sono.
Obama pensa che tutto sommato questo impasse lo favorirà alle elezioni e scarica la colpa sulla Camera guidata dai repubblicani come fece nel 1948 Harry Truman contro il do-nothing Congress. I conservatori sono certi del contrario, sottolineano che la sua leadership è inefficace e che le sue ricette interventiste hanno peggiorato la situazione. Alla fine una soluzione si troverà, ma saranno le urne a decidere quale.

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