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Questo articolo è stato pubblicato il 22 novembre 2011 alle ore 07:35.
L'ultima modifica è del 22 novembre 2011 alle ore 08:20.

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Chi analizzasse le ultime vicende Fiat soltanto con l'occhio ai problemi specificamente sindacali incorrerebbe in un errore di prospettiva. Non si capisce la svolta che Sergio Marchionne sta imprimendo a Fiat-Chrysler se si prescinde dalla cornice industriale che ne è all'origine.

Ricordiamo tutti che il problema delle nuove regole sindacali è stato sollevato da Marchionne dopo l'annuncio di voler riorganizzare la produzione automobilistica negli impianti italiani, procedendo alla ristrutturazione completa di alcuni di essi. Oggi non lo si rammenta più, ma già alla fine del 2007 la Fiat aveva varato un'opera di riorganizzazione di Pomigliano, con l'intento di riscattare una storia industriale che non era mai stata brillante. L'impianto napoletano doveva sopravvivere nella logica aziendale, a differenza di quello di Termini Imerese, già destinato alla chiusura, a patto di riguadagnare produttività ed efficienza.

Un obiettivo che doveva, da un lato, essere assicurato attraverso l'introduzione del World Class Manufacturing e del codice ergonomico per la sua applicazione, il metodo Ergo-Uas e, dall'altro, da un nuovo sistema di relazioni industriali. I due aspetti non erano considerabili separatamente, dal punto di vista del Lingotto, perché il nuovo processo lavorativo richiedeva nuove regole sindacali, diverse da quelle ancora in vigore nel Gruppo Fiat. Incominciava così il lungo confronto sulla revisione delle pause durante la lavorazione (i cui tempi dovevano scendere per l'azienda da 40 ai 30 minuti) e, soprattutto, sulla disciplina dei comportamenti sindacali. Alla Fiat premeva il criterio della cosiddetta "esigibilità" degli accordi; vale a dire che l'azienda pretendeva un assoluto rispetto, per esempio, della programmazione degli straordinari, non più violabili da scioperi dichiarati all'ultimo momento.

Alla Fiom-Cgil tutto questo è sembrato un accanimento ingiustificato. Di qui l'interminabile braccio di ferro fra i metalmeccanici di Landini e il Lingotto. Ora, è chiaro che Marchionne vuole il superamento del modello sindacale italiano. Fiat-Chrysler persegue oggi un modello alternativo, più ricalcato su alcune esperienze internazionali dell'industria dell'auto. Giudica il paradigma Usa superiore a quello italiano, perché corresponsabilizza il sindacato. A Marchionne piace il principio di un sindacato che si assume la responsabilità dei contratti che ha sottoscritto e ne fa valere l'applicazione presso i propri rappresentanti di fabbrica, cui non concede né scappatoie né coperture. Per giunta, Fiat-Chrysler tende all'implementazione di un modello organizzativo che accentui fortemente la trasparenza dei suoi impianti in tutto il mondo, rendendo visibili i loro scarti in meglio o in peggio rispetto agli standard medi. Una regola da cui le fabbriche italiane non saranno esentate.

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