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Questo articolo è stato pubblicato il 25 novembre 2011 alle ore 08:08.

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La situazione sta degenerando seriamente. Quando il contagio bussa anche alla porta di Berlino, come avvenuto mercoledì con il flop dell'asta dei Bund tedeschi, è chiaro che i dubbi del mercato non investono più soltanto la debole periferia meridionale dell'Eurozona, ma si estendono ormai alla sopravvivenza dello stesso progetto euro. E c'era da aspettarselo: l'inetta gestione della crisi ha svelato appieno l'incapacità dell'Europa di compiere il salto qualitativo necessario per instaurare un'unione economica e monetaria degna del nome.

Molto si è detto su cosa sarebbe necessario in questa direzione; si vedano, ad esempio, i cinque punti del Manifesto per l'Europa pubblicato il 1° novembre sul Sole 24 Ore. Ma questi passi incontrano un classico ostacolo di sequenza. Da un lato, i passi possibili a breve (come gli eurobond) sono giudicati prematuri dalla Germania e da altri Paesi, perché si considera che prima vada instaurata una disciplina più vincolante, in modo che la protezione offerta dai bond comuni sia meritata e non una scappatoia per allentare gli sforzi. Dall'altro lato, i passi propedeutici per guadagnarsi tale merito - il rigore imposto da modifiche ai Trattati - richiedono a loro volta tempo. Tempo che oggi proprio non c'è, per star lì a discutere quale sia il carro e quali siano i buoi.

Si sta assistendo al diffondersi del contagio all'intera area euro. Le interconnessioni di questa epidemia sono ormai tali che l'Europa non appare neanche più in grado di salvare se stessa, poiché ogni aiuto indebolisce chi lo dà e ne intacca il merito di credito. L'ultimo esempio è fornito dal caso Dexia, espressione dell'abbraccio mortale tra crisi bancaria e crisi del debito sovrano - crisi gemelle, trattate troppo a lungo come fenomeni indipendenti. L'accordo di salvataggio franco-belga per la Dexia è alle corde, poiché i due partner sono essi stessi sotto forte pressione, con la Francia a rischio di perdere l'ormai palesemente generosa valutazione tripla A. E quando (non se) ciò avverrà, cadrà anche l'intera impalcatura del fondo Efsf, che si regge sulle garanzie dei pochi Stati dell'Eurozona che ancora godono del rating massimo. Tanto è che continua ad ampliarsi anche lo spread tra Bund ed emissioni Efsf e ci si comincia persino a chiedere chi salverà lo stesso fondo salva-Stati. Non sorprende che in questa situazione il potenziamento dell'Efsf deciso a fine ottobre sia in alto mare, e che i Brics non abbiano nessuna intenzione di contribuirvi.

In sostanza, quando una crisi investe un'intera regione, diventa difficile per la regione stessa tirarsene fuori. Certo, i veti all'azione della Bce non aiutano, ma non serve illudersi che siano facilmente superabili. Tuttavia, dietro le quinte, vi sono discussioni in corso su una via di superamento che, pur bizantina, potrebbe forse essere accettabile e funzionare.

La via allo studio - non smentita, ma certamente tutt'altro che acquisita - è quella di prestiti della Bce al Fondo monetario internazionale. Mentre lo statuto della Bce vieta, come è noto, il finanziamento diretto dei governi, l'articolo 23 prevede invece che «la Bce e le banche centrali nazionali possono... effettuare tutti i tipi di operazioni bancarie con i Paesi terzi e le organizzazioni internazionali, ivi incluse le operazioni di credito attive e passive». L'Fmi, a sua volta, potrebbe usare tali fondi - potenzialmente anche congrui, date le possibilità illimitate della Bce - per fornire liquidità ai Paesi euro in difficoltà. E potrebbe farlo imponendo la classica condizionalità delle sue operazioni, togliendo la Bce dall'imbarazzo del ruolo inconsueto ricoperto ad agosto con le lettere all'Italia e alla Spagna. Si supererebbe così anche la preoccupazione di chi vede negli eurobond un aiuto incondizionato e fonte di 'moral hazard'. Infine, l'Fmi si assumerebbe anche il rischio di credito, cosa che può fare con un certo agio, dato lo status di creditore preferenziale di cui gode, a differenza della Bce.

Infine, l'Fmi ha questa settimana annunciato un'estensione della sua rete anti-contagio, con l'introduzione di una nuova linea di credito per fornire liquidità a Paesi colpiti dalla crisi (sia qui detto per inciso: la creazione di questo strumento e altre importanti innovazioni recenti del Fondo devono molto a Reza Moghadam, nominato la settimana scorsa a nuovo capo del dipartimento europeo; da lui possiamo attenderci creatività, ma anche notevole grinta, nel monitoraggio Fmi dell'Italia). Le risorse del nuovo strumento sono limitate; per l'Italia, il finanziamento a disposizione sarebbe di appena 43 miliardi di euro (raddoppiabile se l'accordo viene esteso a due anni), contro gli oltre 200 miliardi di euro di debito in scadenza nei prossimi mesi. Lo strumento potrebbe però giocare un ruolo chiave se facesse parte di un pacchetto con fondi provenienti anche dalla Bce. Il direttore dell'Fmi, Christine Lagarde, ha definito la nuova linea di credito «un altro passo verso la creazione di una rete di sicurezza efficace per affrontare le crescenti interconnessioni globali».

Appunto: con la crisi dell'euro ormai con ripercussioni globali, la risposta deve anch'essa assumere una dimensione globale, che tenga conto degli interessi della comunità internazionale nel suo complesso, con buona pace degli orgogli parrocchiali del Vecchio mondo. Accettando tale monitoraggio internazionale, l'Europa avrebbe inoltre maggior titolo per richiamare all'ordine anche gli Stati Uniti, il cui approccio alla riduzione del proprio debito si è rivelato altrettanto disfunzionale. E chissà che il fatto che la gestione della crisi europea non sia più soltanto nelle mani di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy non serva, di per sé, a iniettare una dose di fiducia nei mercati, aiutando anche il Governo Monti nei suoi difficili primi passi.

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