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Questo articolo è stato pubblicato il 03 dicembre 2011 alle ore 09:32.
L'ultima modifica è del 03 dicembre 2011 alle ore 09:46.

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È facile criticare Angela Merkel per i molti errori commessi nella gestione della crisi dal 2008 a oggi. Ed è logico sottolineare che la cancelliera non ha capito i rischi del continuo rinvio di soluzioni alla crisi di liquidità, che riguarda tutti i Paesi sotto attacco tranne la Grecia. Ma prima di farlo bisogna guardarsi attorno e considerare gli interlocutori con cui ha avuto a che fare.

All'eurosummit di fine ottobre il premier greco George Papandreou si era alzato dalla sedia ed era pronto a far saltare il vertice.
Tornato ad Atene ha convocato un referendum suicida e infine ha ceduto al peso del proprio errore e si è dimesso. Silvio Berlusconi ha negato i problemi italiani dopo aver aggirato le condizioni poste in agosto per gli aiuti. Alla fine la perdita di credibilità è stata tale da costringere anche lui ad uscire di scena. Risolti i due problemi più vistosi, la cancelliera scopre ora che il suo interlocutore più stretto, il presidente francese Nicolas Sarkozy, è l'ostacolo maggiore verso un accordo credibile per la stabilità fiscale dell'area euro nel lungo termine.

Giovedì Sarkozy ha difeso una strategia di coordinamento fiscale basata ancora sulla primaria responsabilità dei governi nazionali sulla politica fiscale. Non molto diversa dunque dal vecchio Patto di stabilità. Un grosso problema per Berlino, che chiede cessioni di sovranità nella scrittura e nella sorveglianza delle leggi di bilancio, nonché sanzioni automatiche in caso di violazioni. Ma un problema anche per Bruxelles, visto che la Commissione sta per presentare la proposta di istituire un comitato esecutivo, composto dai vertici delle istituzioni europee, che ogni mese indirizzi, sorvegli e approvi le politiche dei governi nazionali. Infine un enorme problema per Mario Draghi, che proprio giovedì ha condizionato l'aiuto della Bce a un accordo fiscale tra i Paesi dell'area euro: «Il più importante elemento per il recupero della credibilità».

L'Italia ha da perdere più di chiunque altro da un mancato accordo, ma ha anche l'opportunità di disegnare un pacchetto fiscale la cui procedura faccia leva sulla posizione di Bruxelles e di Berlino: si sottoponga volontariamente all'approvazione dei partner dell'area euro e al confronto mensile con Bruxelles, e infine accetti correttivi automatici in caso di sforamento. In tal modo il Parlamento italiano aprirebbe la strada a un accordo europeo privo delle ambiguità francesi, tornerebbe protagonista nel disegnare l'Europa del futuro e consentirebbe alla Bce di intervenire per salvare l'euro.
Entro un tale accordo, inoltre, sarebbe forse possibile all'Italia un pacchetto fiscale meno depressivo a fronte di un grave rischio di recessione. Va evitato infatti che un intervento fiscale troppo forte, dettato dall'isolamento politico di ogni Paese in un quadro intergovernativo, metta in dubbio - anziché rafforzarla - la futura sostenibilità del debito italiano.

Migliorare subito l'accordo sulle regole fiscali dell'area euro è fondamentale perché finora le grandi aspettative che avevano originato i progetti di riforma del Patto di stabilità sono andate deluse. I margini di discrezionalità del vecchio Patto sono stati ridotti solo parzialmente e le parole di Sarkozy, che deve gestire una situazione fiscale molto pesante, fanno pensare che saranno sfruttati per interessi elettorali già nei prossimi mesi. Ai servizi della Commissione Ue inoltre non è stata garantita la necessaria indipendenza nell'amministrare il Patto, né sono previste agenzie fiscali indipendenti che consiglino e sorveglino l'esecuzione delle politiche di bilancio. Infine le nuove procedure del Patto sono così complesse da perdere in trasparenza.

Ovviamente non si tratta di far scegliere a Bruxelles il regime pensionistico degli italiani, ma di garantire che i piani fiscali votati dai Parlamenti nazionali siano realizzati. Si tratta di spostare in una sede europea il controllo e la compatibilità tra sovranità interdipendenti. In fondo è un modo per evitare che gli esecutivi espressi dai Parlamenti nazionali debbano in futuro ancora essere commissariati dai tecnici e possano invece essere aiutati a rispettare esigenze politiche - per esempio quelle delle future generazioni - non legate solo al prossimo ciclo elettorale. In fondo la parola sovranità ha un portato storico pesante, soprattutto in Francia, e forse finalmente andrebbe tradotta con una sua parola antagonista: "relatività nazionale".

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