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Questo articolo è stato pubblicato il 03 dicembre 2011 alle ore 09:28.
L'ultima modifica è del 03 dicembre 2011 alle ore 08:13.

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In un post online intitolato "I miti autocompiacenti dei neocalvinisti d'Europa", Ambrose Evans-Pritchard, del britannico The Telegraph, ci rimanda a un ottimo studio del Centre for European Reform, che mette in guardia dai rischi di affidarsi all'interpretazione della crisi dell'euro imperante nel Nordeuropa, che la «vede sostanzialmente come un apologo morale, dove da una parte ci sono i peccatori e dall'altra quelli che non si sono allontanati dalla retta via».
Gli autori del saggio, Simon Tilford e Philip Whyte, scrivono: «I grandi peccati di cui si sono macchiati i Paesi della periferia sono la dissipatezza dei Governi e la perdita di competitività. La strada per uscire dalla crisi, pertanto, è semplice e lineare: emulare i virtuosi Paesi del nocciolo duro risanando i conti pubblici e migliorando la competitività (aumentando la produttività o riducendo i salari, o entrambe le cose). Se i Paesi della periferia riusciranno nell'impresa, la crisi del debito della zona euro potrà essere risolta senza bisogno di drastici balzi in avanti sul piano istituzionale, che portino a un'unificazione delle politiche di spesa pubblica».

Chi legge regolarmente questa rubrica sa che è già un bel po' di tempo che batto su questo tasto. La mia analisi è molto simile a quella di Tilford e di Whyte; ve la ripropongo.
La storia dell'euro fino oggi in sostanza è questa: l'introduzione della moneta unica, creando un falso senso di sicurezza, ha prodotto afflussi cospicui di capitali, con conseguenti disavanzi cospicui delle partite correnti, nelle nazioni dell'Europa meridionale: Grecia, Italia, Portogallo e Spagna (l'Irlanda è una storia un po' diversa, anche se con alcuni punti di contatto: qui non mi ci soffermerò).
Gli squilibri ora devono essere riassorbiti. Per riuscirci servono due cose, come può dirvi chiunque abbia studiato macroeconomia internazionale. Per prima cosa, una ridistribuzione della spesa: i creditori devono spendere di più e i debitori devono spendere di meno. Come seconda cosa, un deprezzamento reale da parte dei debitori e un apprezzamento reale da parte dei creditori: in altre parole, salari e prezzi nei quattro Paesi dell'Europa meridionale devono ridursi rispetto a quelli tedeschi.

Ma la linea ufficiale dei leader della zona euro è che questo aggiustamento dev'essere interamente unilaterale. La spesa deve ricadere sulle spalle dei debitori, ma senza politiche espansive compensative nei Paesi creditori: insomma, la politica economica della zona euro nel suo complesso è assolutamente antiespansiva. Al contempo la Banca centrale europea tiene l'inflazione su livelli bassi, e questo significa che l'aggiustamento del tasso di cambio reale dovrà passare principalmente attraverso una deflazione nei Paesi del Sud Europa, cosa molto complicata e che avrebbe come effetto di aggravare ulteriormente il fardello del debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo.

Anche disponendo di riserve illimitate di volontà politica, uno scenario del genere sarebbe la ricetta ideale per una recessione e una stagnazione prolungata: con un capitale politico così limitato (guardate il nuovo Governo spagnolo quanto ci mette a diventare impopolare come quello precedente!) è una via sicura per la catastrofe.
Non mi meraviglia che gli eurocrati abbiano riposto la loro fede nella fatina della fiducia, ma la fatina non vuole saperne di farsi vedere.
Per salvare la pelle ci vorrebbe un drastico cambio di rotta. E finora non vedo nessuno disposto a farsi carico di questa necessità.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
© 2011 New York Times Syndication

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