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Questo articolo è stato pubblicato il 04 dicembre 2011 alle ore 09:06.
L'ultima modifica è del 04 dicembre 2011 alle ore 09:55.

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Il Governo sta per varare la manovra correttiva dei conti pubblici. Secondo le ipotesi, si tratterà di una correzione strutturale attorno ai 20-25 miliardi di euro, sufficienti a garantirci il raggiungimento dell'equilibrio di bilancio nel 2013. Ma in gioco c'è molto di più di una semplice correzione dei conti, per quanto sostanziale. Raggiungere l'obiettivo di bilancio è importante, perché su questo ci siamo impegnati in Europa e su questo i mercati valuteranno la credibilità del nuovo esecutivo e la capacità del Parlamento di sostenerne l'azione in modo convinto.

Tuttavia, ancora più importante è che la manovra riesca a dare un segnale forte di discontinuità nella conduzione della politica economica, ponendo al centro i problemi veri del Paese, a lungo sottovalutati nell'ultimo decennio. I problemi sono una crescita insufficiente e una distribuzione fortemente iniqua delle risorse pubbliche e del carico fiscale e contributivo per finanziarle. In particolare, è cruciale che la manovra contenga strumenti per sostenere l'economia nei prossimi uno-due anni, quando davvero si giocherà la partita della nostra permanenza in Europa e della sopravvivenza dell'euro. Se la situazione economica dovesse ulteriormente aggravarsi, non c'è alla lunga correzione dei conti che tenga, e il Paese non sarà in grado di onorare i propri impegni.

Se questa lettura della situazione è corretta, ne seguono alcune chiare indicazioni di politica economica. Il Governo interverrà su pensioni, fisco, incentivi, per aumentare il gettito e sostenere l'economia. Come lo farà? Le anticipazioni sono contraddittorie. Per esempio, per le pensioni si parla tra l'altro di un'estensione del metodo contributivo, tramite il meccanismo pro-rata, anche alle generazioni più anziane.

Si tratta di un intervento dovuto da tempo e che rafforza l'equità del sistema pensionistico. Ma non si dovrebbe dimenticare che la principale distorsione è la presenza di pensioni d'anzianità, che consentono tuttora a lavoratori con poco più di 58 anni di ritirarsi dall'attività lavorativa, oltretutto con pensioni molto più elevate di quelle che avranno le generazioni successive. Abolire del tutto le pensioni di anzianità o spostare in avanti il momento dell'ottenimento del beneficio non soltanto introdurrebbe maggior equità nel nostro sistema pensionistico, ma libererebbe risorse che consentirebbero di sostenere le fasce più deboli e l'economia.

Per il fisco, poi, si parla di un complesso di interventi, per aumentare il gettito e sostenere le imprese e l'occupazione. Per esempio, per gli incentivi, si ipotizza una riduzione del costo del lavoro, attraverso un taglio dell'Irap sulle retribuzioni o l'aumento della deducibilità della imposta da Ires e Irpef. È certamente un'ipotesi da perseguire: in un'economia a cambi fissi, come quella in cui ci troviamo dopo l'adozione della moneta unica, l'unico modo per dare fiato al mondo produttivo nel breve periodo è quello di intervenire riducendo i costi delle imprese. Ma agire sull'Irap o sulle altre imposte è un modo molto indiretto: non ha effetti immediati. E non è detto che vada a vantaggio dell'occupazione: potrebbe semplicemente condurre a una ricostituzione dei margini di profitto. Sarebbe molto meglio, invece, intervenire tagliando direttamente il costo del lavoro, tramite una fiscalizzazione dei contributi pensionistici.

Infine, la manovra è sostenibile solo se avrà al proprio interno forti elementi di equità: chi finora ha pagato di meno sia chiamato a offrire un maggior contributo al risanamento finanziario, come ha dichiarato lo stesso presidente del Consiglio. Il Governo intenderebbe raggiungere quest'obiettivo attraverso la reintroduzione dell'Ici sulla abitazione principale, l'inasprimento fiscale sulle seconde e successive case, l'incremento delle aliquote più alte dell'Irpef, un aumento della pressione fiscale sui beni di lusso, barche e auto, con strumenti ancora non definiti. Se queste indiscrezioni verranno confermate, è dubbio che rappresentino il cambio di passo necessario.

Reintrodurre l'Ici sulla prima casa è certamente una necessità, ma più nell'ottica della ricostruzione di un rapporto corretto tra contribuenti e governi nella gestione della finanza locale, che per motivi di equità. Aumentare le aliquote dell'Irpef significa sostanzialmente tassare di più chi le tasse già le paga, cioè in larghissima misura i lavoratori dipendenti. Tassare di più l'acquisto i beni di lusso significa introdurre un effetto recessivo, oltretutto su industrie su cui l'Italia ha qualche vantaggio comparato. Decisamente meglio sarebbe invece un'imposta patrimoniale, ad aliquota molto bassa, per esempio il 5 per mille, sull'insieme del patrimonio, deducendo. le imposte già pagate sugli immobili. Il problema, qui, è la mancanza di una dichiarazione patrimoniale che consenta di riportare a ciascun contribuente il patrimonio complessivo posseduto, compreso quello detenuto in forma societaria.

Non è dunque ancora possibile introdurre un'imposta sui patrimoni che abbia caratteristiche di progressività, come invece si dovrebbe. Ma un'imposta patrimoniale ad aliquota molto bassa avrebbe comunque l'effetto di sollevare molto gettito, data l'enorme ricchezza detenuta dagli italiani; colpirebbe un po' di più chi possiede più patrimonio e introdurrebbe minor effetti recessivi e distorsivi di un'imposta sui consumi. In futuro, sarebbe invece utile introdurre in modo esplicito per i contribuenti una dichiarazione annuale dei patrimoni posseduti, ora molto più facilmente controllabili dal fisco, grazie all'abolizione del segreto bancario e agli sviluppi delle tecnologie informatiche.

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