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Questo articolo è stato pubblicato il 10 dicembre 2011 alle ore 08:06.

Chi si chiede perché si facciano le conferenze mondiali sul clima non ha tutti i torti. Durban si avvia alla chiusura più o meno alla stregua delle ultime conferenze mondiali: un nulla di fatto camuffato da un documento finale pieno di buone intenzioni e dichiarazioni di principio. Sarà prorogato il protocollo di Kyoto, per la gran parte inapplicato, in attesa che alla prossima conferenza si trovi un accordo globale per il 2020. In poche parole, per l'ennesima volta, non si è riuscita a trovare una quadra di buon senso e nell'interesse comune, una via mediana tra il massimalismo del tutto e subito e il minimalismo di chi rinvia a data da destinarsi ogni misura per fermare l'inquinamento e il surriscaldamento globale. Naturalmente il rimpallo di accuse è globale: gli Usa, la Ue, Cina e India si rimpallano le responsabilità di un ennesimo mezzo fallimento. C'è da augurarsi che, alla fine del vertice di Durban, per salvare la faccia, Kyoto vada avanti. Senza Canada, Giappone e Russia e, naturalmente, senza gli Stati Uniti che quell'accordo non lo hanno mai ratificato. Una sorta di campionato del mondo di calcio a cui non partecipano il Brasile, l'Argentina, la Germania e l'Italia. Di Durban resteranno le proteste, ovattate, degli ambientalisti, e i calcoli su quante emissioni ha prodotto il vertice anti-emissioni.

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