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Questo articolo è stato pubblicato il 11 dicembre 2011 alle ore 13:52.
L'ultima modifica è del 11 dicembre 2011 alle ore 14:07.

L'interrogativo del giorno dopo continua ad essere quello del giorno prima. La mossa isolazionista di David Cameron mette davvero Londra al riparo dalle "interferenze" dei partner negli affari della City? La risposta è no, nessun nuovo elemento della strategia presunta del Governo conservatore è emerso fino ad ora.

Neppure nelle parole del cancelliere dello Scacchiere George Osborne, impegnato ieri a suonare la sinfonia del premier, insistendo sulla tutela stesa dal Governo per il bene dell'industria finanziaria.
La politica della sedia vuota, come il Financial Times l'ha definita con toni critici, non solo è inedita nelle relazioni anglo-europee, ma anche dannosa per la Gran Bretagna. Come può Londra, per garantire i propri legittimi interessi, influenzare al meglio le politiche del mercato interno che regolano anche la City? C'è una sola soluzione: agire dall'interno della nuova struttura comunitaria invece di aggiungersi all'ultimo momento, arrivando ad occupare la sedia vuota quando i giochi sono già stati fatti.

Un navigatissimo Tory d'antan - seppure iscritto fra i filo europeisti - come Michael Heseltine, ha colto il passaggio aggiungendo una considerazione. «David Cameron doveva usare il veto perché non avrebbe mai ottenuto l'approvazione parlamentare, ma s'illude se pensa di riuscire a proteggere la City navigando verso l'Atlantico». La motivazione prevalente della scelta è dunque interna e va trovata nella silhouette di un partito in rivolta, nell'impossibilità di un passaggio parlamentare e anche nella voglia dello strappo dopo compromessi trascinati per decenni. La visione pragmatica di un'Unione aperta e lasca, cara alla Gran Bretagna, è forse morta a Bruxelles e David Cameron con coerenza, se si vuole, ha sfoderato il ringhio del bulldog britannico in marcia verso un incerto esilio.

Al netto di tutto ciò, rimane l'irrisolta questione della City, un'industria che rappresenta il 10% dell'economia inglese. Per la prima volta la pressione interna ai Tory, generata anche da sentimenti popolari, si è saldata con la percezione di una minaccia. Mai come ora Londra sente il continente stringere su quelli che considera primari interessi nazionali. Una morsa che ha due nomi e una nazionalità: Nicolas Sarkozy e Michel Barnier. Se il presidente francese e il premier britannico hanno difficoltà ad intendersi in una diversità anche di carattere che i blog britannici amano enfatizzare, il commissario al mercato interno è, invece, considerato la testa di ponte del tentativo francese di scardinare la centralità di Londra nel mondo finanziario.

La Tobin tax è la prospettiva più reale. Se fosse introdotta la Gran Bretagna vedrebbe ridursi la propria competitività non a beneficio di Parigi e Francoforte, ma di New York o Hong Kong. Il temuto trasferimento del clearing e delle negoziazioni di prodotti finanziari in euro nelle capitali dell'Eurozona potrebbe invece andare a esclusivo vantaggio di francesi e tedeschi le cui borse sono in procinto di fondersi. Approcci diversi, visioni opposte della convivenza europea giunti forse al passaggio finale. Eppure resta irrisolto l'interrogativo iniziale: la scelta strategica adottata non dà risposte alla minaccia esterna, vera o presunta, ma solo all'appeasement interno ai Tory. Segno inatteso di debolezza del premier, più che di fragilità della City.

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