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Questo articolo è stato pubblicato il 29 dicembre 2011 alle ore 06:39.

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I dati relativi alla produzione e al commercio con l'estero del 2011 illustrano il fatto paradossale che, anche in questa Italia industriale che cade a pezzi, ci sono sezioni dell'industria manifatturiera - in particolare quelle riunite nei "distretti industriali"- che, nel bel mezzo della crisi, resistono e persino si espandono. L'andamento delle nostre esportazioni manifatturiere, conferma Marco Fortis (Dentro la crisi 2009-2011. America, Europa, Italia, Il Mulino, 2011) è in parte notevole dovuto proprio ai nostri distretti industriali.

Mi pare che sia questa l'occasione migliore per porci in modo chiaro ed esplicito la domanda se l'industria dei distretti sia un patetico strascico dell'arretratezza del nostro apparato industriale, come sembrano pensare ancora molti politici ed economisti, o non sia, invece, un punto vivo e vitale - fra i più forti al momento - della società italiana? Questa è la domanda ch'io rivolgerei al ministro Corrado Passera.

E se, come mi aspetto, egli mi rispondesse che è un punto vivo e vitale, io passerei a chiedergli. quali misure specifiche egli intenda adottare per aiutare i nostri distretti industriali a fare la loro parte nel guado che stiamo attraversando?

Il punto ch'io sollevo sta nell'abbordare questo problema come l'intersezione cruciale della politica industriale in senso stretto, con la politica urbana e regionale, cioè dell'assetto civile, urbano e suburbano, di numerose aree del territorio italiano. Sotto questo profilo bisogna tener conto, nei disegni per il futuro, che lo sviluppo "dal basso" dei distretti industriali è un fenomeno molto complesso, che, nei decenni, o forse nei secoli, della sua maturazione, ha richiesto molteplici adattamenti strutturali e sovrastrutturali. Gli studi economici, da soli, non bastano a decifrare il "groppo" di problemi che ne discende.

Se non si ha chiaro quanto profonde siano le radici del fenomeno distrettuale e si distraggono risorse con interventi "a tappeto" su settori industriali astrattamente più "prestigiosi", si commette, a mio avviso, un grave errore. In tal caso, infatti,.è quasi certo che la distrazione di fondi dal finanziamento di quegli autentici "motorini di sviluppo" su cui si regge il paese, può costarci assai cara.

Quindi, anzitutto, occorrerebbe una sede specifica, di alto profilo scientifico, quanto meno multidisciplinare, per studiare sistematicamente la, diciamo così, civiltà distrettuale, o para-distrettuale, di tante zone del nostro paese. Non si parte da zero, perché già ora, qua e là ci sono, nelle Università italiane, insegnamenti convergenti sullo studio del territorio da un punto di vista distrettuale. Si tratta di portare a sistema questi conati d'inquadramento logico con riferimento alla forma di progresso industriale più tipica del nostro paese. In secondo luogo bisogna abituarsi a considerare il distretto industriale - unione organica di una popolazione e di un apparato produttivo - la vera "unità produttiva" di tanti tipi di produzione.

Il punto ch'io farei, in conclusione, è che bisogna riuscire a pensare l'industria manifatturiera - così importante per un paese come l'Italia - più che in termini di settori industriali o di imprese singole, come una realtà di industria localizzata che trae parte rilevante della sua competitività dal felice congiungimento di un assetto produttivo con un patrimonio storico, infrastrutturale e culturale, consolidatosi nel tempo lungo.
Se non "si pensa" la realtà produttiva del nostro paese in questo modo sistemico, si corre sempre il rischio di ricadere - seppur con le migliori intenzioni -: nel discorso consueto delle agevolazioni alla "piccola impresa" come tale, che costituiscono spesso, nei fatti, un aiuto mascherato alle arrancanti grandi imprese, di cui le piccole sono subfornitrici.

In sostanza, quando persino Michael Porter, leader riconosciuto degli economisti aziendali, col suo concetto di "valore condiviso (shared value) (si veda Harvard Business Review, n.1., 2011), invita a riconsiderare l'approccio agli studi aziendali, pare anacronistico fondare una politica di sviluppo industriale sulla consueta impostazione aziendalistica.
Mi rendo conto che il discorso politico-economico italiano non è, oggi, in generale, maturo per questo riorientamento. Per demolire il muro dei pregiudizi servirebbero, a mio avviso: a) un'iniziativa di studio di alto profilo, sponsorizzata congiuntamente dal ministero per l'Istruzione e dal ministero dell'Economia, per lo studio sistematico dei distretti industriali italiani; b) un'attrezzata sede giornalistico-informatica, in cui si potessero agevolmente discutere e confrontare, per ogni problema, le misure proponibili, volta per volta, coll'approccio distrettuale con quelle basate sui consueti approcci aziendale e settoriale. Iniziative del genere costituirebbero, a mio avviso, un bel regalo del "governo "tecnico" al paese al suo successore.

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