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Questo articolo è stato pubblicato il 31 dicembre 2011 alle ore 08:45.
L'ultima modifica è del 31 dicembre 2011 alle ore 09:04.

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L'esigenza di porre riparo a una situazione economica d'emergenza e quella di evitare un devastante scontro elettorale hanno indotto, come sappiamo, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ad affidare, col consenso dei principali partiti, il timone del Paese a un governo tecnico guidato da Mario Monti. Questa sua iniziativa non risulta, peraltro, un'assoluta novità, in quanto altre volte, lungo l'itinerario dell'Italia repubblicana, il Capo dello Stato è giunto a esercitare un ruolo preminente nel sensibilizzare l'opinione pubblica e responsabilizzare la classe politica per affrontare, efficacemente e in unità d'intenti, certi tornanti difficili della nostra vita politica o economica.

Durante il settenato di Luigi Einaudi, che si distinse per la sua rigorosa correttezza costituzionale, fu una specie di "governo del Presidente" quello monocolore democristiano (con a capo Giuseppe Pella), da lui nominato nell'agosto 1953, alla fine dell'età degasperiana, che incappò poi in un'ostilità sottotraccia della stessa Dc; ma che Einaudi reincaricò nel gennaio 1954, rammentando ai capigruppo dello Scudo crociato in Senato e alla Camera che il veto di un gruppo parlamentare era inammissibile, per via dell'articolo 92 della Costituzione.

D'altra parte, numerosi e autorevoli furono, fra il 1948 e il 1955, i suoi interventi di stimolo o di correzione, sia in forma di inviti espliciti al capo del Governo per il riesame di alcune delibere a lui sottoposte, sia in forma di "messaggi motivati" alle Camere per un ripensamento di determinati provvedimenti: come avvenne, per esempio, nei riguardi di certe leggine di spesa, giudicate incompatibili con le regole di una buona amministrazione. D'altronde, dopo essersi battuto nell'Assemblea costituente affinché venisse inserito nel dettato costituzionale il principio del pareggio del bilancio, Einaudi non diede mai il suo assenso a misure che non avessero la necessaria copertura finanziaria.

Che il ruolo presidenziale sia stato esercitato in termini tutt'altro che notarili, e talora con marcati tratti distintivi politico-ideologici (come gli orientamenti "neo-atlantisti" di Giovanni Gronchi), lo si è constatato, successivamente, in modo particolare durante il settenato di Sandro Pertini, fra il 1978 e il 1985. L'ex presidente della Camera impresse infatti alla sua azione un notevole vigore e dinamismo, coniugandola con la tendenza a dialogare direttamente con la gente in virtù delle sue singolari doti comunicative.

Ciò che risultò, peraltro, provvidenziale in una fase drammatica in cui era necessario dar prova, a cominciare dalle più alte cariche dello Stato, sia di estrema fermezza per neutralizzare l'offensiva del "terrorismo rosso", sia di una robusta fiducia nelle capacità della società italiana di superare la spirale della stagflazione e risalire la china. Inoltre, Pertini gestì la crisi di Governo apertasi nel gennaio 1979, dopo l'epilogo dell'intermezzo della "solidarietà nazionale", in modo da concluderla con l'insediamento a Palazzo Chigi di un laico, dapprima del repubblicano Spadolini nel 1981 e poi del socialista Craxi nel 1983.

Quanto a Francesco Cossiga, non è certo il caso di sottolineare, tanto è risaputo, come l'ultima fase del suo settenato sia stata segnata da una crescente accentuazione delle sue prerogative politico-istituzionali, che suscitò tra le diverse forze politiche sia calorosi consensi che severe censure (e persino la richiesta al Parlamento della sua messa in stato d'accusa, avanzata dal Pds). Fatto sta che le reiterate critiche di Cossiga nei confronti di certi difetti che riteneva insiti nell'architettura costituzionale e le controverse vicende che costellarono il suo mandato contribuirono al tramonto della Prima Repubblica.

Di Carlo Azeglio Ciampi, governatore per quattordici anni della Banca d'Italia e poi presidente del Consiglio fra l'aprile 1993 e il maggio 1994, prima della sua ascesa nel maggio 1999 al Quirinale, è largamente noto il forte impegno da lui dispiegato per rilanciare, nell'ambito di un Paese spaccato da aspri antagonismi politici e alle prese con spinte secessioniste, i principi e i valori dell'unità e dell'identità nazionale, ereditati dal Risorgimento e dalla Resistenza e iscritti nella Costituzione repubblicana.

D'altra parte, se già in precedenza (quale ministro del Tesoro dal maggio 1996, per un triennio) s'era adoprato, anche andando controcorrente, per il raggiungimento dei parametri stabiliti dal trattato di Maastricht, egli perseguì poi decisamente, durante il suo mandato presidenziale, l'obiettivo di orientare la politica estera italiana a sostegno della formazione nel Vecchio Continente di una Comunità politica europea a tutti gli effetti.

È dato ravvisare dunque una sorta di "fil rouge", tessuto o ricucito di volta in volta a seconda delle diverse evenienze e personalità nell'opera dei Presidenti della Repubblica succedutisi dall'inizio ai giorni nostri. E non è certo un'eccezione, se si considera quanto è avvenuto in altri momenti particolarmente impervi, il fatto che oggi Napolitano si sia preoccupato anche di blindare la direzione di marcia del governo Monti e determinati contenuti prioritari del suo programma.

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