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Questo articolo è stato pubblicato il 11 gennaio 2012 alle ore 08:16.
L'ultima modifica è del 11 gennaio 2012 alle ore 08:33.

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Dall'epilogo del caso Malinconico si possono ricavare due lezioni. La prima è che non c'è bisogno di appartenere al mondo dei partiti per commettere gravi errori di comportamento: nel caso del sottosegretario la scorrettezza etica (non il reato, che nessuno ha contestato) era inaccettabile per il codice che il governo Monti si è dato.

È un incidente di percorso, senza conseguenze per l'esecutivo, anche se lascia un po' di amaro in bocca: qualcosa, con ogni evidenza, non ha funzionato nei criteri con cui sono state fatte certe scelte «tecniche». E infatti non c'entra la politica, bensì l'alta burocrazia.

La seconda lezione riguarda la rapidità con cui il presidente del Consiglio ha risolto la questione. Monti si è mosso con la velocità di riflessi di un politico consumato, rendendosi conto che qualsiasi esitazione avrebbe trasformato una vicenda personale in un disastro collettivo. Se c'è un fronte su cui il governo della lotta all'evasione fiscale non può permettersi alcun cedimento, è quello della moralità pubblica. Sotto questo aspetto, la capacità di leadership del premier ne esce rafforzata. È un buon auspicio per la compagine che ha nel rapporto con l'opinione pubblica il suo punto di forza.

Detto questo, anche questo episodio conferma che il governo «tecnico» non ha altra strada se non quella di procedere con determinazione lungo la sua rotta. In Europa e in Italia. Le forze politiche al momento possono solo accompagnare il percorso dell'eseutivo, avanzando qualche richiesta. Che poi lo facciano in qualche caso di malavoglia o con sofferenza, è cosa che riguarda il loro rapporto con l'elettorato; o l'immagine che vogliono trasmettere al paese.

Sappiamo, del resto, che sul Parlamento sta per abbattersi un macigno destinato a richiamare tutti i partiti al principio di realtà: perché l'imminente decisione della Corte Costituzionale sulla legge elettorale segnerà uno spartiacque. Come ha detto Giuliano Amato, «quella legge va cambiata in ogni caso, quale che sia il verdetto della Consulta». In altre parole, i partiti disoccupati hanno l'occasione di tornare a impegnarsi. Non solo sul modello elettorale, ma - se ne saranno capaci - sull'intera gamma delle riforme istituzionzali.

Di sicuro il passaggio è delicato. Ci sono oltre un milione e duecentomila firme di cittadini che hanno sottoscritto il referendum contro il "Porcellum" di Calderoli perché si ritengono espropriati del diritto di eleggere i loro rappresentanti. La loro voce interpreta un sentimento molto diffuso nel paese. Tuttavia la Corte è dubbiosa sulla possibilità di ammettere il quesito referendario, che avrebbe l'effetto - secondo un punto di vista - di riesumare la legge precedente: il "Mattarellum" (abrogato dal Parlamento).

Qualsiasi decisione è difficile. Non si può dare alla pubblica opinione l'impressione che quella montagna di firme sia stata ignorata o disattesa. Un'ipotesi, solo un'ipotesi al momento, è che la Corte respinga il quesito, ma al tempo stesso rivolga un forte appello alle Camere affinché cancellino il testo Calderoli e regalino all'Italia una legge elettorale degna di questo nome. Il che darebbe ai partiti qualcosa con cui riempire i prossimi mesi, immaginando il futuro. Le voci che si rincorrono sulle risorgenti tentazioni di elezioni anticipate sono per ora nient'altro che voci. Da non prendere sul serio. Prima c'è da ridefinire la geografia politica. I contenuti e le alleanze. E decisivo, con o senza il referendum, sarà il modello elettorale.

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