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Questo articolo è stato pubblicato il 03 febbraio 2012 alle ore 07:55.
L'ultima modifica è del 03 febbraio 2012 alle ore 06:40.

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A pochi giorni dalla decisione del Governo di aprire una consultazione pubblica sull'ipotesi di abolire il valore legale della laurea arrivano i risultati di una complessa indagine conoscitiva condotta dalla Commissione Cultura del Senato a partire dal marzo scorso.

Il documento, approvato ieri, ripercorre le varie tesi in materia e dà voce a un gran numero di parti coinvolte: gli attori del sistema universitario, i sindacati, Confindustria, gli ordini professionali. Ne risulta un quadro articolato, che difficilmente potrà subire variazioni di rilievo nella consultazione.
La versione estrema dell'abolizione, ispirata al saggio di Einaudi (scritto, è bene ricordarlo, mezzo secolo fa, per un'Italia che non esiste più), auspica che non sia più possibile esigere il titolo di laurea nei concorsi pubblici, spostando così il peso della valutazione sulle prove di esame. Si invoca talora a supporto di questa ipotesi la prassi anglo-americana, ma a sproposito: sia in Gran Bretagna che negli Usa il requisito della laurea è vivo e vegeto e i graduate jobs, i lavori per laureati, costituiscono una categoria ben distinta di posizioni sia nel pubblico che nel privato.

A parte gli inconvenienti pratici, che porterebbero a concorsi ancora più elefantiaci e ingestibili di quelli attuali, non si capisce quale sarebbe il senso di un'operazione di questo tipo, se non quello di squalificare agli occhi di studenti, famiglie e datori di lavoro un titolo che attesta in ogni caso un impegno e delle competenze (e se le competenze sono talora scarse il problema non si risolve abolendo il titolo, ma irrobustendo i contenuti del corso di studi).
Ma anche l'irrigidimento opposto, quello che vede nel titolo rilasciato "in nome della legge" e nel sigillo della Repubblica sulle pergamene un baluardo a difesa del rigore degli studi, o quanto meno della natura pubblica delle università, opera una confusione tra realtà e simboli. Il valore, legale e sostanziale, della laurea non risiede in quella formula, ma nel fatto che a rilasciare i titoli siano solo istituzioni autorizzate a farlo (e poi monitorate con regolarità) da un'autorità pubblica: in Italia il ministero, ma d'ora in poi sulla base di un'accurata istruttoria Anvur; negli Usa gli Accreditation Boards, che non sono statali ma sono riconosciuti dall'autorità statale e federale, in Gran Bretagna il Privy Council, cioè il Consiglio della Corona. Ne discende che, al netto delle percezioni e delle opinioni, tutte lecite, il valore formale della laurea in quanto tale è per forza uniforme e che quindi l'idea di "graduare" il voto di laurea, nei concorsi, sulla base dell'ateneo in cui è stato conseguito è campata in aria.

Anzi, proprio perché sappiamo, dati AlmaLaurea alla mano, che alcuni atenei sono più esigenti di altri e che i voti variano molto da corso di studio a corso di studio anche nella stessa sede, sarebbe ragionevole eliminare qualunque valutazione automatica del voto in sede di concorso: è meglio lasciar partecipare chi si è laureato con 66 che escludere a priori chi ha preso 98, magari in una disciplina molto dura, e non ha senso regalare un forte vantaggio di partenza a chi la lode l'ha ottenuta in un ateneo di manica larga o in una materia un po' soft.
Nelle sue considerazioni conclusive la Commissione del Senato, pur giudicando «suggestiva e attraente» l'abolizione del valore legale, propende per considerarlo prematuro e nel complesso negativo, il che è certamente vero se riferito alla versione "estrema". Ma restano invece ampi spazi, lo conferma lo stesso documento, per eliminare rigidità che hanno dalla loro solo tradizioni inveterate o interessi corporativi: gli automatismi legati al voto, appunto, o quelli che consentono progressioni di carriera a tavolino, ma anche la predeterminazione troppo rigida della laurea richiesta per questo o quel concorso.

Consentire ai laureati in legge di concorrere quasi dappertutto tarpando invece le ali a molti altri tipi di laurea, da quelle economiche o quelle umanistiche, non risponde in molti casi ad alcuna vera esigenza culturale o professionale, limitandosi a perpetuare una visione del mondo e del sapere superata dal tempo e ormai distante anni luce da una realtà lavorativa più lunga, più variabile e più complessa. Siamo tutti lieti di sapere che il nostro medico è laureato in medicina, ma non ci farebbe poi male poter contare su qualche ambasciatore laureato in filosofia, o un po' più di economisti alla Corte dei Conti.

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