Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 07 febbraio 2012 alle ore 07:57.
L'ultima modifica è del 07 febbraio 2012 alle ore 06:41.

My24

Le parole pronunciate dal premier sulla riforma del mercato del lavoro, forse non felicissime in alcuni passaggi, hanno il merito di aver specificato senza troppi giri di parole l'obiettivo prioritario del "governo di ferro" (secondo l'icastica definizione dell'Economist).

Quello di ri-equilibrare il sistema «tutelando un po' meno chi oggi è iper-tutelato e tutelando un po' di più chi oggi è quasi schiavo nel mercato del lavoro o non riesce a entrarci». Insomma, una riforma per i giovani e non contro. Sono infatti prima di tutto gli inoccupati, chi è alla ricerca del primo impiego, a scontare gli effetti perversi della "retorica" della sicurezza.
Il modello dell'impiego-garantito-per-tutta-la-vita costituisce, com'è noto, il frutto maturo di una fase storica in cui la crescita era stata per lungo tempo elevata, affidata alla produzione industriale della grande fabbrica fordista, la classe media vedeva aumentare il proprio reddito, i sindacati erano all'apice del loro potere organizzativo e la partecipazione femminile al mercato del lavoro era scarna. Siamo tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta, al climax del "trentennio glorioso", poco prima che il primo shock petrolifero cominciasse a dispiegare i suoi effetti.

Non deve sfuggire la correlazione diretta tra la forza di quel modello e l'andamento della ricchezza nazionale. Quanto più la crescita era sostenuta, tanto più il posto fisso (per i lavoratori maschi adulti) appariva l'unica strada percorribile per consolidare il benessere nazionale, finanziariamente sostenibile e socialmente accettabile. Basti pensare che tra il 1961 e il 1970 la crescita media del Pil in Italia era pari al 5,7%, superiore a quella statunitense (3,9%), tedesca (4,6%) e francese (5,6%). Già nel decennio successivo, tuttavia, gli indicatori macroeconomici mutano radicalmente.

Tra il 1971 e il 1980 il Pil rallenta, presentando un valore medio del 3,1%. Vent'anni dopo, negli anni novanta, la creazione di ricchezza comincia ad erodersi (1,6%), per poi scendere a picco tra il 2001 e il 2010 (0,36%), sino alla recessione in atto. Pensare oggi di mantenere in piedi quel modello non solo è irrealistico, ma è controproducente. La decrescita, tutt'altro che felice, dipende da limiti strutturali irrisolti di lungo termine del nostro sviluppo nazionale, dalla cattiva gestione governativa della congiuntura da decenni, ma anche dalla redistribuzione mondiale delle capacità produttive e, dunque, della ricchezza, a vantaggio di paesi con una disperata forza e la tenace speranza di affrancarsi dalla povertà, simili a quelle dei nostri padri o nonni negli anni cinquanta. Una tendenza che potremmo parzialmente controbilanciare solo con profonde riforme.

Eppure il "mito" del posto fisso continua ad esercitare un fascino irresistibile e ad essere al centro dell'agenda politica (se non fosse che via via ha finito per riguardare una nicchia sempre più ristretta di persone, tagliando fuori chi nel frattempo aveva studiato, chi aveva talento e chi desiderava mettersi in gioco), creando iniquità e clamorosi effetti perversi: il dilagare dell'economia sommersa, il familismo crescente, la scarsissima mobilità tra gli impieghi e, appunto, pochissime opportunità di lavoro per le giovani generazioni. A spezzare la sindrome ci si è provato più volte, ma non ci si è mai riusciti.
Sia chiaro che i giovani, i ventenni che incontriamo dentro e fuori le aule universitarie, nemmeno ci pensano al posto fisso. Nessuno pretende di riavvolgere la bobina degli ultimi quarant'anni. Ma è altrettanto evidente che a loro non si può chiedere tutto, senza nessuna tutela in cambio.

Non è tollerabile che 1 su 3 sia senza impiego, che aumenti sistematicamente la quota di chi non lavora né studia e di chi, pur avendo un'occupazione, è a tutti gli effetti "povero". Di chi volteggia a mo' di surfista tra un tirocinio e l'altro (gratis) pur di riempire il curriculum e di chi è addestrato a farsi di nebbia, nel caso in cui passino gli ispettori sul lavoro. Una condizione inaccettabile e sciagurata. Con un silenzio della rappresentanza (forse che i ventenni sono iscritti a uno qualunque dei sindacati che partecipano alle trattative col governo?) che è forse il rumore più assordante del nostro malconcio sistema democratico.
Se l'attuale tavolo di negoziazione non diventa un discorso appassionato sull'occupazione giovanile, avremo forse perso l'ultima delle occasioni per risalire la china.

Shopping24

Dai nostri archivi