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Questo articolo è stato pubblicato il 07 febbraio 2012 alle ore 07:59.
L'ultima modifica è del 07 febbraio 2012 alle ore 06:41.

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Dopo le manovre di correzione dei conti pubblici varate nell'ultimo anno dal Governo Berlusconi e dal Governo Monti, l'Italia è avviata verso il pareggio strutturale dei conti pubblici. Ma finora ciò non è stato sufficiente a riportare il tasso d'interesse sul nostro debito pubblico verso un livello più prossimo a quello pagato dai debitori migliori.

Molto può e deve fare l'Europa; anzitutto dotandosi di strumenti, i cosiddetti firewalls, che scoraggino la speculazione. Ma il nostro problema rimane: con un debito a questo livello, ogni stormir di fronda sui mercati finanziari produce da noi una tempesta. Dobbiamo certo puntare a una crescita economica più sostenuta. Ma le politiche per la crescita producono effetti solo nel periodo medio-lungo. E pertanto non dobbiamo farci illusioni circa l'andamento futuro dei tassi d'interesse: quanto riusciremo a ricuperare via riduzione dello spread sarà prima o poi riassorbito da un innalzamento del tasso free risk, poiché le banche centrali non potranno proseguire all'infinito nella loro politica espansiva.

È dunque inutile continuare a girare intorno al problema: il nostro livello del debito pubblico è troppo elevato, sia nel confronto internazionale sia nel confronto con la nostra stessa storia. Dobbiamo operare per ridurlo, entro un tempo ragionevolmente breve.
Sul "mercato delle idee" circolano una serie di ipotesi e di proposte, più o meno realistiche, su come procedere. Tutte meritevoli di adeguata considerazione, facendo però attenzione a evitare una imposta straordinaria sul patrimonio più o meno camuffata, che finirebbe per scoraggiare il risparmio e scatenare una nuova fuga di capitali, riducendo con essa la disponibilità di risorse per gli investimenti produttivi.
L'idea più semplice da percorrere sarebbe cedere sul mercato tutte le attività patrimoniali pubbliche non strettamente necessarie allo Stato e alle amministrazioni locali per svolgere i loro compiti fondamentali.

A partire dagli immobili non strumentali posseduti da tutti gli enti pubblici e mettendo in cantiere le procedure per la concessione delle partecipazioni ritenute "non strategiche". Le opinioni su cosa sia strategico possono divergere e la discussione deve essere aperta e svolgersi con chiarezza di fronte ai cittadini. Ciascuno potrà far valere le proprie ragioni. Ma c'è da chiedersi per uno Stato che ha privatizzato le tre Banche d'interesse nazionale, i cinque Istituti di credito di diritto pubblico, l'intero sistema delle Casse di risparmio come possa considerare strategica l'attività bancaria svolta dalle Poste o dalla Cassa Depositi e Prestiti. Come pure avendo privatizzato l'Ina (governo Dini 1995) si possa considerare strategica l'attività assicurativa svolta ancora dalle Poste o dall'Inail. Per non dire della produzione televisiva d'intrattenimento svolta dalla Rai.

Ma certo se si può discutere della necessità di mantenere un ruolo pubblico in Eni ed Enel, delle Ferrovie, ovvero della difesa (Finmeccanica) non si comprende perché occorrerebbe mantenere pubbliche la Acea o la A2A (rispettivamente le municipalizzate del l'energia romana e milanese).
Per uscire dalle ipotesi, è necessario predisporre un piano concreto di privatizzazioni, nel quale fissare cosa vendere, in che tempi e con quali procedure. In questo ambito andrebbero considerate le ipotesi di cui si è detto, comprese quelle riguardanti l'utilizzo di veicoli, tipo fondi comuni, ai quali conferire le partecipazioni da cedere. A questo scopo sarebbe utile che il Governo nominasse un'alta commissione che – entro un tempo breve, a esempio tre mesi – stenda un simile programma; una volta valutato dal Governo potrebbe essere il Parlamento a pronunciarsi, impegnando il Governo alla sua realizzazione.

Non deve essere dimenticato che le conclusioni sul "fiscal compact" hanno confermato l'impegno per il nostro Paese a ridurre di circa il 3% all'anno il rapporto fra debito e Pil in ciascuno dei prossimi venti anni. Un ragionevole programma di dismissioni patrimoniali potrebbe generare entrate in grado di garantire già dal prossimo anno il graduale rientro del debito. Dopodiché, con l'aiuto di un pò di ripresa economica, sarebbe sufficiente mantenere il bilancio in pareggio, per rispettare il piano di rientro.
Il problema della nostra finanza pubblica non è tutto qui. Rimane la necessità di ridurre un carico fiscale su imprese e cittadini che ha raggiunto un livello difficilmente compatibile con lo sviluppo della libera intrapresa privata. A questo scopo non vi è alternativa a una severa revisione della spesa pubblica corrente che conduca a sostanziosi risparmi, da destinare alla riduzione delle imposte. Ma ogni sforzo si farebbe più doloroso – e forse addirittura vano – se nel frattempo non si procederà a una drastica riduzione del livello del debito, attraverso un ampio programma di dismissioni patrimoniali.

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