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Questo articolo è stato pubblicato il 19 febbraio 2012 alle ore 14:47.

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La danza macabra sulla GreciaLa danza macabra sulla Grecia

Un commento sul Financial Times di ieri si intitolava: "Danzando intorno al default di Atene". È esattamente quello che i leaders europei stanno facendo nei confronti della Grecia. La danza, a parer mio, è macabra, poiché da troppo tempo continua inutilmente mentre la stessa Grecia sta via via affondando in una economia senza prospettive e in una politica con provvedimenti di austerity senza speranza. Suonano allora arroganti e offensive le varie dichiarazioni: «Noi non siamo la Grecia», oppure quella, fra le peggiori, del Ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble che ha invitato la Grecia, al fine di affrontare la crisi, a sospendere la democrazia e affidarsi a una pura amministrazione tecnocratica. Ispirato forse dalla teoria del suo connazionale Carl Schmitt, che l'eccezione giustifica qualunque cambio di sovranità? Questa attitudine e l'inconcludente danza europea sono perdite di tempo, di denaro, ed estremamente pericolose. E poi, nessuno ha ancora dimostrato, né ha tentato di farlo, che il fallimento, in anomala trasposizione di un istituto privatistico al debito di uno Stato quasi sovrano, come la Grecia e gli altri paesi dell'eurozona, sia la strada corretta per risolvere il problema del debito pubblico. E se fosse solo un sotterfugio politico a copertura di interessi diversi?

La verità è che l'Europa è la Grecia, noi siamo la Grecia, noi siamo – ci piaccia a volte e altre no – l'Europa.

Infatti, in caso di default greco è già stata ampiamente rilevata l'influenza nefasta che esso avrebbe sull'intero sistema creditizio dell'eurozona, ad incominciare proprio dalle banche tedesche e francesi.

Invece, in caso di salvataggio ulteriore della Grecia, le previsioni sulla sua crescita sono talmente negative che il suo PIL degli anni futuri sarà non superiore a quello di paesi in via di sviluppo, ma senza alcuna prospettiva. Ci saranno allora in Europa uno o più paesi arretrati con la stessa sovranità limitata, con la stessa moneta, con le stesse autorità monetarie. Ancora una volta noi saremo la Grecia e l'Europa sarà la Grecia.

E' dunque assolutamente corretta l'impostazione data dall'editoriale di questo giornale del 14 febbraio sulla necessità dell'impegno nell'economia reale, poiché è solo questa che può aiutare l'Europa e salvare l'Italia, la cui popolazione è ad alto rischio di povertà, secondo i dati dell'Istat, al 24,5%, con una media ben superiore a quella dei Paesi dell'area euro (21,5%). Ed è proprio il credit crunch poi, che può bloccare la crescita e soffocare le imprese, gli investimenti e l'occupazione. Della corruzione pubblica e privata, dell'evasione fiscale, già abbiamo parlato altre volte, sicché le recenti denunce della Corte dei Conti non abbisognano, per quanto riguarda il nostro paese, di ulteriori commenti. Insomma, insegnava già J.M. Keynes, anche il debito pubblico deve essere considerato nel contesto del resto dell'economia.

Né va dimenticato che per l'Europa, la Grecia, noi e gli altri, il vero grande problema rimane il rapporto fra democrazia e debito pubblico, sovranità e politiche fiscali. E' ben vero che i mercati dei capitali sono ovviamente un utile strumento nelle mani dei governi. Ma è anche vero che la democrazia deve favorire i cittadini rispetto ai creditori. A volte i loro interessi coincidono, altre volte no. Come assicurare la democrazia quando i capitali globalizzati sono altamente mobili e quando sono spinti dalle non sempre candide anime della speculazione e perciò diventano i veri despoti? L'equilibrio tra democrazia e debito è perduto. E' proprio allora che l'eclissi dei valori fondamentali della borghesia democratica porta alla ribalta un ceto medio populista e affamato, irrispettoso della democrazia, della politica e che rifugge dalla solidarietà del benessere collettivo e della giustizia sociale. Si verifica allora quel che scriveva Giacomo Leopardi nel "Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani": "Gli usi e costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l'uso e il costume proprio, qual che egli sia".

Credo sia giunto il momento per gli italiani di smentire il loro grande poeta.

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