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Questo articolo è stato pubblicato il 24 febbraio 2012 alle ore 07:44.
L'ultima modifica è del 24 febbraio 2012 alle ore 06:39.

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Abbiamo appreso dalle colonne di questo giornale che David W. Packard, figlio del co-fondatore del gigante dell'informatica Hp, ha sostenuto la gestione del sito archeologico di Ercolano. Il generoso e lungimirante finanziamento di un donatore straniero per la conservazione di uno dei tanti preziosi beni che la storia ci ha lasciato in eredità va salutato con gratitudine.

Sorprende però che ce ne sia bisogno nel Paese che ha inventato, e praticato su larga scala, il mecenatismo.
Perché così poco rimane in Italia di quella tradizione? Perché invece gli americani sembrano mostrare una straordinaria generosità nel prendersi cura di iniziative che hanno la natura del bene pubblico - dalla preservazione del patrimonio archeologico e artistico alla sponsorizzazione dell'arte e della musica, fino al finanziamento su larghissima scala della ricerca condotta in istituzioni private e pubbliche? Le cattedre universitarie finanziate dalla donazione di un mecenate e intitolate al donatore sembrano in America altrettanto diffuse quanto da noi i banconi donati dai fedeli alla propria parrocchia, che ne ricorda il gesto con l'affissione del nome.

L'Università di Stanford fu creata grazie alla munificenza di Leland Stanford e sua moglie, che decisero alla fine dell'800 di fondare una Università per dare ai ragazzi della California quell'istruzione che il loro figlio non aveva fatto in tempo a ottenere perché morto di tifo a Firenze. Qualche anno fa è stata inaugurata la nuova Business School dell'Università di Chicago, denominata Booth School of Business in onore di David Booth, che ha donato 300 milioni di dollari per la creazione del nuovo magnifico edificio ispirato alla attigua Robie House di Frank Lloyd Wrigth e alla prospiciente Rockefeller Chapel. Potremmo continuare con gli esempi. Ma che cosa spiega questa generosità? Nel Paese dei sospetti, dove il do ut des è regola imperante, la risposta cinica è che se lo fanno ci guadagnano, ne hanno un ritorno monetario. Non è così, o perlomeno non è così nella maggior parte dei casi. Certo, il desiderio di lasciare traccia del proprio nome nei secoli a venire può animare alcuni. Niente di male in questo. Ma non è la ragione principale. Uno di noi ebbe l'opportunità di ascoltare direttamente dalle sue parole, in un discorso non di circostanza, la motivazione di David Booth: riconoscenza verso l'Università alla quale doveva le sue fortune.

Poiché attribuiva il suo successo all'insegnamento che aveva ricevuto, era arrivato per lui il tempo di restituire ciò che gli era stato dato. Al posto del "do per avere", sembra trattarsi di un "do perché ho avuto". Le donazioni degli americani riflettono la consapevolezza che i risultati ottenuti dipendono anche da ciò che si è ricevuto, e il dovere morale di renderlo indietro, perché anche altri abbiano i mezzi per affermarsi, perché la società possa prosperare. E, ancora più profondo, c'è un rapporto diverso tra individuo e Stato: il maggiore individualismo che caratterizza quella società porta con sé anche una maggiore responsabilità individuale, una minore disponibilità a delegare a istituzioni impersonali. E, paradossalmente, una maggiore attenzione al benessere collettivo. I privati si prendono direttamente cura di ciò che è tipicamente pubblico, occupano uno spazio che da noi è spesso esclusiva dello Stato, e lo fanno sentendo il peso della responsabilità. Le istituzioni che ricevono le donazioni sanno che chi dona lo fa con questo spirito ed è attento al buon uso dei fondi donati.

Esiste un meccanismo di allocazione di queste risorse in cui le università concorrono per attrarre fondi e i donatori finanziano le iniziative che ai loro occhi meritano di più. È una gestione competitiva della generosità, che pone una certa disciplina alle istituzioni che ne beneficiano. Forse parte del successo di quelle accademie riposa anche in questo meccanismo. E il loro successo a sua volta invoglia i donatori.
L'Europa, dove fiorì nel Rinascimento il mecenatismo, dove grazie alla generosità senza contropartite di singoli donatori poterono esprimere il loro genio creativo Mozart e Gauss, sembra aver perso questo tratto. Da un recente rapporto della Commissione Europea sullo stato e la pratica della filantropia per la ricerca nelle università europee viene fuori un quadro desolante, e una conferma della nostra diagnosi. Delle più di mille Università europee contattate solo il 16% hanno fornito le informazioni, e già questo suggerisce che la raccolta di fondi filantropici è una pratica rara. Tra quelle che hanno risposto, solo il 15% attraggono fondi privati per la ricerca per almeno 1 milione di euro l'anno.

Per il 65% i fondi filantropici sono trascurabili o assenti. Tra le Università che hanno un qualche significativo successo nell'attrarre questi fondi, la metà sono Università inglesi, un Paese in cui l'impostazione dello stato sociale e la cultura della responsabilità individuale sono simili a quelli degli Stati Uniti. Solo il 15% sono Università spagnole, portoghesi o italiane. Che cosa produca questo complessivo fallimento - se la scarsità di donatori o il disimpegno dei potenziali riceventi non è facile stabilirlo. Forse questi due aspetti si sostengono reciprocamente.

Forse ci sono difficoltà di natura fiscale o normativa. Ci sono anche eccezioni rilevanti. Una (che, lo riveliamo per trasparenza, ha finanziato l'istituto di ricerca a cui apparteniamo) è costituita dall'Axa Research Fund, un fondo di 100 milioni di euro da erogare in cinque anni, creato dalla compagnia francese Axa per finanziare cattedre e ricerca in istituzioni promettenti, con meccanismi di allocazione meritocratici e competitivi. E si intravvedono occasionalmente generosi, discreti donatori privati che ricordano lo spirito di Booth e Stanford. Ma, per l'appunto, sono eccezioni, non la regola. Al ripristino di quest'ultima occorre lavorare perché l'Europa, e l'Italia innanzitutto, ritornino alla tradizione di Cosimo e Lorenzo de' Medici e a quella più recente ma vecchia di un secolo di Ferdinando Bocconi.

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