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Questo articolo è stato pubblicato il 27 febbraio 2012 alle ore 10:29.
L'ultima modifica è del 27 febbraio 2012 alle ore 06:39.

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Secondo l'Economist, l'ascesa del capitalismo di Stato è uno dei più grandi cambiamenti vissuti dall'economia mondiale negli ultimi anni. All'interno di questa nuova e per alcuni inquietante forma di capitalismo, i fondi sovrani giocano da protagonisti. Che ci piaccia o no, con un patrimonio che sfiora i 3mila miliardi di dollari e zero debito i fondi sovrani sono tra i pochi investitori "liquidi" in questi tempi di crisi.

Stanno approfittando dei prezzi da saldo per farsi strada nel capitale delle migliori imprese europee, oppure aspettano il verdetto finale sul futuro dell'Eurozona prima di imbarcarsi in investimenti denominati in valute dal valore incerto?
Secondo i dati più recenti, nel 2011 i fondi sovrani globali hanno realizzato 43 acquisizioni in società quotate europee per un controvalore di 19,4 miliardi di euro, circa un terzo di quanto hanno investito all'estero. La maggior parte dei deal sono stati però realizzati in Gran Bretagna, uno dei Paesi storicamente preferiti dai fondi.
La crisi del debito sarà uno spartiacque anche per le strategie di investimento dei fondi sovrani e potrà causare significative riallocazioni nei loro portafogli.
La denominazione "risk free" associata ai titoli governativi è ormai superata: si stanno infatti accumulando tensioni sul rischio sovrano di molti Paesi in cui i fondi hanno investito molto in passato. A mano a mano che i titoli di Stato americani ed europei andranno a scadenza, i fondi sovrani dovranno scegliere se rinnovarli in un contesto in cui gli Stati non sono più affidabili come una volta o se andare alla ricerca di migliori opportunità in altri comparti, per esempio nei corporate bond o nell'azionario.

La chiusura dell'aumento di capitale di Unicredit suggerisce che la seconda alternativa potrebbe essere la direzione di marcia. Con una partecipazione combinata di circa il 10%, i fondi sovrani arabi si confermano soci importanti della banca. In particolare, qualora venisse confermata oltre il 6% la quota di International Petroleum Investment Company, il fondo sovrano di Abu Dhabi sarebbe il singolo maggior azionista di Unicredit. Ma ancor più interessante sarà osservare se l'aumento delle quote indurrà cambiamenti nella corporate governance delle società straniere da loro partecipate.
Fino a oggi i fondi sovrani arabi, pur avendo partecipazioni rilevanti, hanno scelto un profilo basso, rinunciando sistematicamente a eleggere propri rappresentati nei consigli di amministrazione per rassicurare gli stakeholder e la politica locale sulle finalità puramente finanziarie e non "strategiche" dei propri investimenti.

Unicredit potrebbe essere un banco di prova per un cambio di passo verso un maggior attivismo dei fondi sovrani. Forti delle loro quote, potrebbero esercitare, assieme agli altri soci internazionali, un controllo efficace sul management e contribuire a guidare il gruppo verso la creazione di valore nel lungo termine mantenendo una prospettiva globale. Unicredit, comunque, è per storia, operazioni e azionisti una banca profondamente ancorata a territori e a comunità locali oggi strette nella morsa del credit crunch. La sfida difficile sarà quindi trovare nella definizione delle strategie un punto di equilibrio fra le ambizioni internazionali e il richiamo patriottico di una grande banca "made in Italy".

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