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Questo articolo è stato pubblicato il 29 febbraio 2012 alle ore 09:34.
L'ultima modifica è del 29 febbraio 2012 alle ore 09:35.

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La Valsusa è la nuova prova di maturità per il Governo e per l'intero sistema politico. Non è una novità, naturalmente. Sono circa dodici anni che la realizzazione della ferrovia veloce equivale a un rebus irrisolto e irrisolvibile.

Discussioni, confronti, infiniti negoziati e compromessi.
Nel tempo si è tentato di tutto, eppure la logica del movimento No-Tav ha sempre prevalso. In assoluta sintonia fra loro, governi di centrosinistra e di centrodestra, da Prodi a Berlusconi, si sono persi nei boschi piemontesi. E oggi siamo all'incirca al punto di partenza, in uno scenario reso drammatico dall'incidente occorso al giovane manifestante Luca Abbà caduto dal traliccio.

La differenza con il passato è che a Roma esiste un governo «tecnico» che per sua natura è votato a realizzare l'opera. E che non ha alcuna ragione politica per arrendersi all'ennesimo rinvio. In Parlamento questo governo è sostenuto da un arco di forze che non avrebbero, a loro volta, alcun interesse a favorire le tattiche dilatorie. È vero che negli anni ora l'uno ora l'altro di questi partiti, quando si sono trovati al governo, si sono rivelati incapaci di affrontare la questione. Tuttavia, oggi che a Palazzo Chigi siede Mario Monti, dovrebbe essere più facile per tutti, dal Pdl al Pd passando per il terzo polo, mostrarsi responsabili e aiutare l'esecutivo a procedere senza ritardi.

Tutto questo sulla carta. In pratica le cose sono più complicate. La questione No-Tav è ormai diventata una grande questione di ordine pubblico. Una seria questione, con blocchi sulle autostrade e in almeno una stazione ferroviaria (Lecce). Il rischio che la protesta dilaghi in forme ancora più incontrollate è reale. E fino a ieri le forze politiche non si erano mostrate particolarmente sensibili al problema. Nel complesso apparivano distratte, forse preoccupate di assumere posizioni troppo impegnative.

Ora però la disattenzione non è più possibile. Il Pd ha preso l'iniziativa di provocare un dibattito in Parlamento e i tempi dovranno essere stretti. Non solo. È opportuno che la discussione si concluda con una mozione o in ogni caso con un documento in grado di segnare un momento di larga unità e di riunire, se possibile, anche i partiti che sono all'opposizione.
Ieri ad esempio Di Pietro ha rilasciato una dichiarazione molto ambigua («l'alta velocità va fatta, ma studiamo un altro percorso») che con qualche ottimismo potrebbe essere intesa come un tentativo di non perdere i contatti con la maggioranza. Peraltro è Bersani che ha bisogno più di tutti di esprimere un forte sostegno al progetto, per non lasciare spazio a tutti i gruppi alla sua sinistra che civettano con i manifestanti anti-Tav.
Quanto al governo, da un lato si sentirebbe rincuorato da un esplicito appoggio del Parlamento; dall'altro, sa di non poter aspettare. Lo stato dell'ordine pubblico richiede una forte determinazione: capacità di gestire la piazza, ma senza mandare a monte i lavori che stanno cominciando. Finora i ministri hanno parlato con due voci. Passera ha detto: «Andiamo avanti». La responsabile dell'Interno ha invece affermato: «Ci vuole dialogo». Le due frasi possono essere complementari oppure del tutto contraddittorie.

Molti No-Tav hanno inteso l'invito al «dialogo» come una possibilità di sospendere il progetto. Ovviamente non è questa l'intenzione del governo. Ma allora quale sarà l'obiettivo del confronto? Forse guadagnare tempo per svelenire la tensione fino a riassorbirla. Ma anche per questo ci vuole che i manifestanti si sentano isolati. E torniamo alla responsabilità del Parlamento. Sembra arrivato il tempo delle parole chiare.

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