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Questo articolo è stato pubblicato il 08 marzo 2012 alle ore 09:22.

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Nel 2008 il Goethe Institut si è dotato di un organismo insolito. L'ente incaricato di promuovere la lingua e la cultura tedesca all'estero ha creato un gruppo di consulenza a cui partecipano i presidenti delle grandi aziende del paese: da Volkswagen a Deutsche Telekom. Il suo compito è di individuare "i temi e i campi che hanno legami sia con la cultura che con l'economia" e di consigliare l'organismo pubblico "sui grandi cambiamenti sociali a livello internazionale".
L'obiettivo della mano pubblica non è tanto di beneficiare di finanziamenti privati, come avviene in altri paesi, ma piuttosto di capire - attraverso l'esperienza di grandi imprese - come la cultura tedesca possa essere esportata all'estero. In una Germania, rasa al suolo dalla guerra ma sempre orgogliosa delle sue tradizioni romantiche, l'investimento culturale è strategico. Un confronto europeo mostra quanto il caso tedesco sia per molti versi un'eccezione.

Secondo i dati di Eurostat, le persone che lavorano in ambito culturale sono il 2,2% del totale degli occupati in Germania, assai più della media europea (1,7%) e soprattutto della media italiana (1,1%). Le statistiche sottolineano il ritardo dell'Italia in questo campo, nonostante il paese ospiti oltre 40 siti protetti dall'Unesco. La penisola è spesso indietro in settori quali l'editoria, l'industria cinematografica e televisiva, le attività radiofoniche, le arti creative, il settore museale o archivistico, e più in generale nel flusso complessivo di investimenti in ambito culturale in relazione al Pil.
Il ruolo della lingua non può essere sottovalutato. Il francese e lo spagnolo sono Weltsprachen, lingue mondiali. Meno il tedesco e l'italiano. Poco importa: come non sorprendersi che le case editrici diano lavoro a 71mila persone in Spagna e a 89mila persone in Italia, ma a 145mila in Francia e 413mila in Germania? Tra il 2004 e il 2009 il numero degli scrittori e degli artisti è cresciuto in Germania e in Francia, mentre è calato in Italia (sono appena lo 0,5% del totale degli occupati).

Tra il 2007 e il 2011, la stessa Italia ha ricevuto aiuti dal Programma Culturale Europeo per 22,8 milioni di euro, ma l'anno scorso pur avendo presentato alla Commissione il più alto numero di domande, il paese ha avuto un numero basso di risposte positive, con un tasso di successo di appena il 17%. Dennis Abbott, portavoce dell'esecutivo comunitario, nota che la selezione tra i diversi progetti è severa e che non sempre le domande rispettano i criteri imposti dalla Commissione.
Più in generale, i prodotti culturali sono ormai un pilastro del commercio, fosse solo per la possibilità di acquistare libri e film su Internet. La prossima apertura di una sede del Louvre ad Abu Dhabi ha fatto scalpore, ma è solo un esempio tra molti di esportazione culturale. Secondo gli ultimi dati a disposizione, l'Unione ha registrato nel 2009 in questo settore un attivo commerciale pari a 1,9 miliardi di euro. Quasi metà dei paesi, tra cui la stessa Italia, ha messo a segno un surplus.

Le esportazioni italiane sono scese tra il 2004 e il 2009 del 3,3% annuo a 833 milioni di euro. Meglio ha fatto il Belgio con un export pari a 884 milioni di euro, e naturalmente la Francia che ha venduto all'estero per 2,3 miliardi nel 2009, con un aumento in cinque anni del 3,5% annuo. Chi dice poi che la Germania vende solo auto e macchinari rimarrà sorpreso nello scoprire che sempre nel 2009 la Repubblica Federale ha esportato cultura per 4,2 miliardi di euro.
Per l'Italia la cultura rappresenta circa lo 0,3% dell'export. Il paese è in fondo alla classifica, insieme alla Bulgaria, alla Romania, all'Ungheria e alla Finlandia. Le statistiche mostrano che il livello di spesa pubblica in cultura, sport e ricreazione rispetto al prodotto interno lordo è simile in Italia e in Germania. Eppure i risultati tedeschi sono migliori di quelli italiani. Il denaro è utilizzato meglio al di là delle Alpi, come dimostra anche la collaborazione delle imprese con il Goethe Institut.
Le ragioni sono probabilmente da ricercare nella debolezza di un disegno strategico e nella parcellizzazione degli investimenti (pubblici e privati), provocata tra le altre cose da una tendenza al campanilismo e al familismo che - oltre a minare le basi di una politica nazionale e a moltiplicare (dietro all'alibi del pluralismo) i festival, i convegni, i premi letterari - riduce la qualità media della produzione culturale. All'alba del XXI secolo, città d'arte e storia antica non bastano più.

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