Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 09 marzo 2012 alle ore 09:04.

My24

Da qualche giorno una delle aziende americane che usano innovazione e creatività come biglietto da visita, quella Apple oggi anche regina di Wall Street dall'alto di 500 miliardi di dollari di valore di mercato, fa circolare uno studio: pubblicizza un'analisi di quanti posti di lavoro abbia generato a casa, negli Sati Uniti, nonostante molti dei suoi prodotti siano made in China. E la cifra degli occupati, diretti e indiretti, è fatta per colpire: 514mila, quasi quanti i 700mila creati dall'enorme rete di fornitori all'estero. La matematica di Apple, volta a rintuzzare critiche di troppo outsourcing, può servire a tirare altre somme, forse più importanti e meno controverse: il risultato dà conto del ruolo di moltiplicatore, di volano della crescita che possono giocare tutte le industrie creative. Ovvero quel crogiuolo di settori dai confini ancora incerti ma in continua espansione, il cui denominatore è costituito da attività dove prevale il contenuto intellettuale, a cominciare da quello protetto da copyright.

Le creative industries, parte della transizione verso l'economia del sapere, oggi comprendono vecchi e nuovi media, dal cinema alla pubblicità a Internet, toccano almeno in parte l'information technology e il software, occupano gli spazi della tradizionale industria culturale e si estendono all'architettura, al design e alla moda. Ovvero, nella definizione adottata dal governo britannico e che ha messo radici oltreatlantico, tutte quelle industrie "che hanno la loro origine nella creatività, nel talento e nell'abilità individuale e il potenziale per creare ricchezza e lavoro attraverso la generazione e lo sfruttamento della proprietà intellettuale".
Gli Usa, tra le leve della loro riscossa economica, scommettono sull'incrocio fra sapere, innovazione e impresa. In più Stati americani, dal Massachusetts al Vermont, esistono ormai posizioni di direttore per la Creative Economy. E la International Intellectual Property Alliance, una coalizione di associazioni settoriali, commissiona ogni anno un rapporto intitolato "Copyright Industries in the Us economy" dedicato a testimoniarne la rapida evoluzione. Nella ricerca del 2011, si legge che la marcia di questo comparto nel Paese continua a battere quella dell'economia in generale, con cinque milioni di addetti che salgono a 10 milioni aggiungendo l'"indotto", i servizi colegati, pari al 9,9% dei lavoratori americani. Il segmento core, misurato in altro modo, da solo conterebbe già per il 6,4% del prodotto interno lordo, si avvicina ai mille miliardi, un contributo quasi pari ai settori finanzario e assicurativo. La classificazione più ampia, compresi i servizi ancillari, supera i 1.600 miliardi, l'11,1% dell'output economico. Nelle sole arti, secondo alcune stime, lavorano quasi tre milioni di addetti in 700mila imprese, il 4% della Corporate America.

Il tasso di crescita di questa industria americana del copyright, a controprova della crescente influenza, è stato stimato tra il 3,4% e il 4,2% anche nel difficile biennio 2009-2010, rispetto e meno del 3% per l'economia americana. E la sua forza globale affiora dalle esportazioni: quando si considerano quattro segmenti core, cinema e tv, software per computer, editoria e musica, raggiungono i 134 miliardi l'anno, il doppio di aerospazio e agricoltura e il triplo dell'auto. E circa un quarto dell'export globale di beni e servizi creativi misurato dalle Nazioni Unite. Nella Gran Bretagna l'America sembra avere l'unica rivale: le creative industries rappresentano quantomeno una percentuale simile del Pil, circa il 6%, doppia rispetto alla media europea grazie a 180mila imprese e al 7,8% della forza lavoro totale.
Gli Stati Uniti vantano un ruolo di leadership, al di là dei grandi numeri, in singoli comparti spesso d'avanguardia. Nei media, il cinema e il settore discografico contano su oltre ventimila aziende e un giro d'affari annuale da quasi cento miliardi, con un surplus commerciale di circa 12 miliardi. L'Information technology è un business da oltre 500 miliardi e più di centomila aziende, che rappresentano il 70% della ricerca e svilupppo globale nel software. Questa scommessa "creativa" non dovrebbe venire meno. Le task force delle imprese americane impegnate a proteggere il copyright hanno stimato la proprietà intellettuale (IP) in un tesoro complessivamente pari a 5.500 miliardi da continuare a sfruttare. Gli investimenti in ricerca e sviluppo di queste aziende, comprese le creative industries, sono quasi tre i tre quarti del totale. Le aziende considerate "Ip intensive" hanno anche salari più alti, del 60% ai livelli più specializzati. Nei comparti essenziali dell'industria creativa sarebbero in media più generosi del 27 per cento.

Shopping24

Dai nostri archivi