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Questo articolo è stato pubblicato il 15 marzo 2012 alle ore 08:33.
L'ultima modifica è del 15 marzo 2012 alle ore 08:38.

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La decisione dell'Isda (l'associazione internazionale degli swap e derivati) ha rimosso anche l'ultima foglia di fico: la ristrutturazione "volontaria" del debito greco che riduce il valore nominale dei titoli del Governo ellenico del 53,5% (e il valore di mercato del 75%) è un "credit event", un termine tecnico per dire insolvenza. In altre parole: fallimento. Il più grosso fallimento statale della storia.

Per quasi due anni noi editorialisti del Sole abbiamo ripetuto che il fallimento della Grecia era inevitabile. Per lo stesso periodo politici e banchieri centrali di ogni ordine e grado si sono rifiutati di riconoscerlo. Nel 2010 l'allora presidente della Bce Jean-Claude Trichet aveva affermato ripetutamente che il fallimento della Grecia era «fuori questione». L'anno scorso il presidente francese Nicholas Sarkozy aveva dichiarato che «non è possibile lasciar cadere la Grecia per ragioni morali ed economiche» e che «il fallimento della Grecia è il fallimento dell'Europa». Ancora un mese e mezzo fa, il direttore generale dell'Fmi Christine Lagarde insisteva che il fallimento della Grecia era «un evento che non doveva essere preso in considerazione».

Se queste persone fossero stati capi di aziende, oggi sarebbero sotto inchiesta per aver ingannato il mercato o sarebbero stati licenziati per chiara incompetenza. Perché i politici possono farla franca?

Questo non è l'unico interrogativo sollevato dal fallimento della Grecia. Il secondo riguarda i tanto famigerati Credit default swap (Cds). Tutti, a cominciare da Mario Draghi, avevano pronosticato che se un default greco avesse fatto scattare i Cds c'era l'elevato rischio di una "chain of contagion" (una catena di fallimenti) che avrebbe messo in crisi il sistema finanziario. Invece, non sembra esserci nessun segnale di catastrofe. Forse che questi rischi sono stati esagerati? Certamente le banche avevano tutto l'interesse ad esagerarli per evitare di pagare il costo dei loro errori.

Nonostante queste pressioni, alla fine chi sbaglia paga. Non abbastanza, troppo tardi, ma paga. Questo reintroduce, anche se in modo tardivo, un po' di disciplina di mercato. È questo l'inizio di una nuovo regola o l'eccezione che conferma la regola vecchia?

Il ritardo nel far pagare ai creditori i loro errori ha avuto costi molto elevati per i greci. Se Atene avesse fatto lo stesso tipo di ristrutturazione due anni fa, oggi il rapporto tra debito e Pil sarebbe dell'80% e le prospettive di ripresa sarebbero maggiori. Aspettando due anni, l'ammontare di capitale privato su cui è stato fatto default si è ridotto di più del 50%. Con il risultato che anche dopo il default il rapporto tra debito e Pil è del 120%, destinato ad aumentare nei prossimi anni a causa di una caduta verticale del Pil (le stime del 2011 indicano un –7%) e di un perdurante deficit primario. Di conseguenza il fallimento odierno è probabilmente solo il primo di una serie che la Grecia dovrà fare prima di rimettersi in piedi. Mio nonno medico ripeteva che «il medico pietoso fa la piaga cancerosa». Lo stesso vale per i fallimenti. Quando avvengono, devono essere sufficientemente radicali da permettere a un Paese di riprendersi. Perché allora l'Fmi e l'Unione europea hanno premesso alla piaga di incancrenirsi, con conseguenze devastanti sul Paese ellenico (disoccupazione giovanile al 48% e disoccupazione totale al 22%)?

L'interpretazione più diffusa, a cui credevo anch'io, era che l'avessero fatto per proteggere le banche francesi e tedesche. Il ritardo ha dato tempo alle banche di vendere i titoli greci a uno sconto tra il 20% e il 60%, invece di incassare una perdita del 75%. Guardando i dati, pero', devo ammettere che questa teoria trova limitato supporto. Se questo era il motivo, le banche non sembrano averne approfittato molto.

Tra maggio 2010 e settembre 2011 i titoli greci detenuti da banche tedesche si sono ridotti di 3 miliardi di euro, quelli di banche francesi per 4,6 miliardi, e quelli di banche italiane per 319 milioni. Si tratta di una riduzione di solo un terzo dell'esposizione iniziale, di cui una gran parte è dovuta all'aggiornamento dei valori di carico ai ridotti valore di mercato (mark-to-market). Quindi le vendite effettive da parte delle banche sono state molto limitate. Ma ci sono forti differenze. Crédit Agricole ha ridotto la sua esposizione dell'80%, mentre Bnp-Paribas solo del 18%. Deutsche Bank ha ridotto la sua esposizione del 49%, mentre Commerzbank ha addirittura aumentato (anche se solo del 2%) la sua. Queste sono esposizioni lorde, che non incorporano la posizione sul mercato dei Cds. Ma l'esposizione netta non è molto differente.

E cosa hanno fatto le banche italiane? Quelle con un'esposizione iniziale limitata come Ubi Banca, Banco Popolare e Montepaschi, l'hanno ridotta di almeno il 50% o completamente eliminata (come Ubi Banca). Ma le due grosse banche hanno avuto atteggiamenti molto diversi. UniCredit ha ridotto la sua esposizione del 30%, in linea con la media europea. Intesa Sanpaolo, invece, ha aumentato seppure marginalmente la propria esposizione. Mentre tra maggio 2010 e dicembre 2010 Intesa Sanpaolo aveva ridotto la sua esposizione alla Grecia di 200 milioni (25%), tra dicembre 2010 e settembre 2011 l'aveva aumentata di 228 milioni, spostandoli però nel banking book, ovvero nella parte del bilancio meno trasparente. Perché?

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