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Questo articolo è stato pubblicato il 21 marzo 2012 alle ore 08:22.
L'ultima modifica è del 21 marzo 2012 alle ore 06:41.

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Il manifesto per la cultura del Sole 24 Ore ha aperto un dibattito stimolante perché costringe ad andare al nocciolo delle questioni, ragionando con senso civico sul futuro di questo Paese. Niente cultura, niente sviluppo. Non si tratta di uno slogan vuoto, ma di un appello alla responsabilità collettiva.

In questo senso mi hanno colpito le parole con cui il presidente del consiglio Mario Monti ha rammentato «l'ingegno, il talento e il sudore degli italiani che hanno fatto grande la Fiat», pronunciate domenica scorsa al Teatro Regio di Torino: perché nel ragionamento si può scorgere un richiamo alla cultura storica che sostanzia l'esperienza della grande impresa.
Ci si può chiedere se questo riconoscimento valga anche quando ormai l'impresa si è fatta compiutamente globale ed è diventata "apolide", per riprendere un'espressione recente di Sergio Marchionne. Quando cioè essa mostra di considerare il mondo intero come una scacchiera sulla quale dislocare i propri investimenti e le proprie attività, senza più essere condizionata dalle sue origini e avendo acquisito una completa libertà di movimento. Una simile organizzazione economica ha ancora bisogno di attingere al bacino della propria cultura storica o quest'ultima è confinata soltanto al passato, senza più effetti sul presente e sul futuro?

È sufficiente considerare la comunicazione d'impresa più sofisticata per accorgersi che ben difficilmente essa manca di evocare lo spessore dell'esperienza accumulata. Si pensi, per esempio, all'efficacissimo messaggio affidato da Chrysler al SuperBowl del gennaio 2011, con Eminem che percorreva i luoghi di una Detroit plasmata dalla storia industriale per segnalare una volontà di ricostruzione e di ripartenza. È difficile, quasi impossibile immaginare una cultura d'impresa che prescinda dalla dimensione storica.
D'altronde, il lavoro che alcune imprese hanno condotto sulla loro storia nell'ultimo quarto di secolo, allo scopo di rintracciarvi le basi di una distintiva cultura aziendale, appare notevole, tanto da aver arricchito in misura considerevole la comprensione dell'economia italiana e del suo modello di sviluppo. Spesso all'attività di raccolta e di sistemazione della documentazione interna si è associata la realizzazione di musei aziendali, che in molti casi hanno contribuito al recupero di una cultura del prodotto.

Inoltre, rispetto ad analoghe operazioni condotte in altri Paesi, in Italia la storia e la cultura d'impresa hanno assunto spesso un tono di forte coralità, a sottolineare l'integrazione con la società e il territorio. Appare sintomatico, per esempio, che l'Archivio storico Fiat abbia promosso vent'anni fa la pubblicazione della più vasta documentazione sulle relazioni industriali che mai sia stata tentata da una struttura aziendale, raccogliendo e commentando i verbali delle Commissioni interne, nel periodo della loro massima rilevanza sindacale, fra il dopoguerra e gli anni Cinquanta.
Né si tratta soltanto di attività esclusivamente rivolte al passato. La Fondazione Pirelli, per stare a un altro sempio, ha appena patrocinato un'imponente raccolta di testimonianze orali, in occasione della riorganizzazione del principale stabilimento italiano del Gruppo, quello di Settimo Torinese, un selezione della quale sta per uscire in volume. Ma queste fonti hanno fornito la base per uno spettacolo teatrale che si propone di rappresentare, in forma narrativa, il passaggio generazionale all'interno di una popolazione d'impresa sempre più composita.

Un aspetto particolare concerne poi il recupero della produzione cinematografica delle aziende, che ha portato alla riscoperta di materiali importanti, oggi anche riproposti a un pubblico più largo.
Un tempo, operazioni come quelle sulla memoria storica dell'industria e del lavoro venivano sommariamente giudicate un prodotto di congiunture aziendali favorevoli, che permettevano investimenti culturali pronti a essere revocati non appena sopravvenivano fasi più difficili. La loro sopravvivenza, invece, testimonia che il lavoro di scavo sulla propria identità e sulla propria evoluzione è ormai entrato stabilmente nelle vita di molte imprese, che non rinunciano al patrimonio costituito dalla loro cultura. Gioca in questo senso, a volte, la proprietà familiare, che vuol preservare un senso di appartenenza, oppure la volontà di conservare una cifra di distinzione e di prestigio, o semplicemente l'intenzione di rendere visibile ciò che si è costruito e accumulato nel tempo.

Ora – probabilmente – si potrebbe compiere un passo ulteriore e importante, per cercare di mettere a buon frutto in un progetto più collettivo il recupero della storia e della cultura d'impresa che fin qui si è sviluppato. Se l'Italia deve ritrovare il sentiero della crescita, ciò implica anche una riconsiderazione della propria matrice di sviluppo, delle forze motrici che hanno guidato la trasformazione dell'economia e della società. E qui è giocoforza tornare al ruolo degli attori, dei sistemi aziendali e alle loro esperienze concrete. Un ambito su cui le culture d'impresa hanno davvero molto da dire.

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