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Questo articolo è stato pubblicato il 25 marzo 2012 alle ore 15:11.

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La Cina dello sviluppo a doppia cifra degli ultimi 30 anni ridimensiona le sue previsioni di crescita per il 2012 al 7,5%. L'India le fa eco, con un Pil in progresso del 6,9% quest'anno, in frenata dal 9% del 2009. La Russia si ferma al 3,5 per cento, il Brasile addirittura al 2,7% dal 7,5% del 2010. Certo la stella dei Bric non si sta spegnendo, ma brilla un po' meno. Con le economie avanzate che battono in testa, i Paesi emergenti hanno perso una parte della spinta allo sviluppo. E vengono a nudo le debolezze strutturali.
La Russia è troppo dipendente dall'export di gas e petrolio. Il Brasile subisce l'apprezzamento del real, solo in parte ridimensionato dagli sforzi messi in campo dal Governo. La Cina è alle prese con lo sgonfiamento della bolla immobiliare e soprattutto con la frenata dell'export, che ha portato addirittura a un deficit commerciale di 31,4 miliardi di dollari a febbraio. L'India deve risolvere i nodi della corruzione politica, della resistenza agli investimenti esteri e dell'inflazione. Per tenerla a bada, la Banca centrale ha alzato i tassi 13 volte in 19 mesi. Ma i prezzi sono un grattacapo anche per il Brasile, che si confronta con un costo della vita del 6,6%, contro un target fissato dal Governo al 4,5% per il 2012.

La crescita dei Bric, quindi, ha perso smalto. Ma è tutt'altro che ferma, soprattutto se confrontata con le economie avanzate. Secondo l'Fmi, entro il 2016 il loro sviluppo rappresenterà il 37% della crescita globale, con la Cina da sola al 22 per cento. I Bric rappresenteranno così il 23% della ricchezza prodotta nel mondo, dal 19% del 2011. Nello stesso periodo, la quota del Pil mondiale generata dai Paesi del G-7 diminuirà dal 48 al 44 per cento.
Insomma, anche a scartamento ridotto, i Bric avranno un peso sempre più importante e renderanno le economie avanzate sempre più dipendenti dalla loro capacità di spesa e dai loro capitali. Come mostra l'attivismo delle imprese di questi Paesi. Una ricerca dello studio Freshfields ha analizzato il flusso mondiale di investimenti in operazioni di M&A verso i principali 15 Paesi emergenti. Tra il 2000 e il 2011, queste operazioni hanno mosso circa 1.400 miliardi di dollari (che hanno generato più di 27mila accordi). Se in testa ci sono Stati Uniti (con 213 miliardi di dollari e 4.481 accordi) e Regno Unito (con 142 miliardi di dollari e 1.631 accordi), spicca la posizione di Cina (67,5 miliardi per 1.345 operazioni) e Brasile (61,4 miliardi per 735 accordi), rispettivamente al quinto e sesto posto, sopra Giappone e Germania, a sua volta incalzata dall'India.

Se all'inizio del decennio le operazioni di M&A nei Paesi emergenti erano una questione riservata quasi solo alle economie occidentali, a partire dalla seconda metà degli anni 2000 si assiste a un'accelerazione degli investimenti degli emergenti, in primo luogo dei Bric. Spiega Luigi Verga, partner di Freshfields: «Queste economie, che in molti casi sono emerse più che emergenti, sono sempre più attive, sia come polo d'attrazione di capitali sia nel ruolo di acquirenti e investono sempre di più tra loro. Un trend che si rafforzerà, anche perché nei mercati maturi la crescita è ormai pressoché piatta».
E l'Italia? Tra i 20 Paesi più attivi sui mercati a maggior crescita, l'Italia è al 16° posto, dietro la Malesia e appena sopra la Polonia, anche se rispetto a entrambi il valore medio dei singoli accordi è più alto: le aziende italiane hanno investito 18,8 miliardi per 282 operazioni, contro le 630 operazioni partite dalla Malesia (per 19,7 miliardi) e le 364 della Polonia (per 18,6 miliardi). «Le imprese italiane - spiega Verga - fino a qualche anno fa consideravano queste economie come Paesi dove spostarsi per produrre a costi più bassi. Ora la percezione sta cambiando e stanno prendendo consapevolezza del loro potenziale come mercati di sbocco».

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