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Questo articolo è stato pubblicato il 28 marzo 2012 alle ore 06:40.
L'ultima modifica è del 28 marzo 2012 alle ore 09:09.

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I periodi di crisi diventano spesso periodi di riforme: liberalizzazioni, privatizzazioni, riforme delle pensioni e del mercato del lavoro. Secondo lo studio dell'Ocse presentato ieri, queste misure erano, e continuano ad essere, prioritarie per l'Italia. Il triste pregio delle crisi economiche è quello di mettere a nudo le inefficienze ed i limiti di molte istituzioni e regolamentazioni, evidenziando così il costo dello “status quo”, dell'immobilismo.

Durante le crisi i mercati finanziari si aspettano risposte rapide, convincenti, spesso drastiche, proprio mentre i lavoratori si scoprono maggiormente vulnerabili ed i governi sono alle prese con stringenti vincoli di cassa. Eppure, come mostra anche un recente studio riportato sabato 17 marzo su questo giornale, in un quadro economico e sociale complesso governi deboli o anche ideologicamente lontani da una cultura di riforme sono riusciti ad approvare importanti misure di riforme del sistema previdenziale, dei mercati dei prodotti e del lavoro.

Paradossalmente, la frammentazione consente di non addossare ad una sola forza politica il possibile costo elettorale delle riforme, mentre una certa estraneità ideologica alle riforme può dare credibilità ai politici che si convincono ad agire per fronteggiare la crisi. Se le crisi aiutano a riformare, tuttavia non sempre le riforme adottate in tempo di crisi sono buone riforme. L'esigenza di arrivare ad una soluzione rapida può spingere i governi ad accettare dei compromessi con le forze che dispongono di potere di veto.

Gli esempi non mancano. In Italia, le riforme (Amato e Dini) del sistema previdenziale degli anni 90 richiesero un lunghissimo processo di transizione, che consentì ai lavoratori anziani di eludere le conseguenze delle misure, e concentrò i sacrifici sulle generazioni più giovani. In Svezia una riforma analoga alla Dini fu invece adottata nel 1996 con effetti immediati. Ma è probabilmente la riforma del mercato del lavoro spagnolo del 1984 ad aver avuto i maggiori effetti collaterali. Per fronteggiare tassi di disoccupazione (soprattutto giovanile) elevatissimi, il governo socialista di Felipe Gonzales rese molto più flessibili i contratti di lavoro, ma solo quelli a tempo determinato. Dieci anni dopo, più di un terzo di tutti i lavoratori spagnoli era a tempo determinato. Malgrado le riforme che si sono succedute dal 1994 fino all'anno scorso, e che hanno interessato anche i contratti a tempo indeterminato, la differenza tra queste due tipologie contrattuali persiste e la Spagna è tuttora il paese europeo con il maggior dualismo sul mercato del lavoro.

Il governo Monti, che è stato apprezzato ed incoraggiato dal segretario generale dell'Ocse, Angel Gurria, per lo sforzo di riforma intrapreso nel mercato del lavoro, può e deve evitare questi errori. La mancanza di vincoli elettorali, la credibilità personale e la competenza di molti ministri consentono oggi al governo di adottare riforme universali di riordino dell'intero mercato del lavoro e liberalizzazioni nei molti settori produttivi che lo necessitano. Vanno invece evitate le misure di riforma del mercato del lavoro che aumentano l'aleatorietà della normativa, spingendo al ricorso al sistema giudiziario, anch'esso in profonda crisi, che mantengono la segregazione di alcune tipologie di lavoratori, come sembra essere il caso per i lavoratori a progetto ed i precari esclusi dagli ammortizzatori sociali, o che introducono altre segmentazioni del mercato del lavoro, ad esempio aprendo ulteriormente l'odioso divario tra dipendenti pubblici e privati. Affinché tutti contribuiscano al risanamento del paese, ad una riforma più universale del mercato del lavoro vanno inoltre affiancate liberalizzazioni più coraggiose anche nelle professioni.

La strada è ancora lunga, e una maggiore flessibilità sul mercato del lavoro non risolverà certo tutti i problemi di competitività del nostro paese. Anzi, i risultati nei test triennali internazionali Pisa di matematica (i prossimi si terranno quest'anno), in cui i quindicenni italiani risultano agli ultimi posti tra i loro coetanei dei Paesi Ocse, mostrano che il governo avrà presto altre sfide da affrontare. E non a caso il rafforzamento dell'istruzione secondaria e la riforma dell'universita' sono altre due misure prioritarie che il documento redatto dall'Ocse raccomanda all'Italia. Tuttavia, è proprio nel mercato del lavoro (e nelle professioni) che il governo Monti può lasciare un segno e un'eredità importante.

vincenzo.galasso@usi.ch
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