Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 03 aprile 2012 alle ore 08:00.
L'ultima modifica è del 03 aprile 2012 alle ore 08:53.

My24

Si stanno svolgendo in questi giorni le preselezioni dei progetti di ricerca di interesse nazionale (Prin) e quelli riservati ai giovani (Firb) di cui si è molto parlato anche su questo giornale. Il Ministero ha richiesto che i progetti fossero valutati anche per la loro rispondenza/aderenza alle linee strategiche di Horizon 2020 che costituirà l'ambito di finanziamento comunitario al termine del settimo programma quadro.

Imponendo H2020 ai programmi di ricerca di interesse nazionale il Ministro ha mandato un segnale molto forte non solo al sistema universitario ma anche a quello delle imprese.

Rispetto al programma quadro attuale (FP7), H2020 sposta il paradigma da “science-driven” a “innovation-driven”. L'obiettivo dichiarato è l'integrazione della filiera della ricerca da quella di base fino alla applicazione e al mercato. Gli 80 miliardi di euro che la Commissione riverserà in H2020 sono una prospettiva concreta ed è del tutto ragionevole stimolare il nostro sistema della ricerca a orientarsi per intercettare queste risorse. Con il coinvolgimento di università e imprese su temi "globali" quali cambiamento climatico, salute, sicurezza alimentare, risorse energetiche, mobilità, ecc. si punta a mantenere alto il livello competitivo delle industrie europee.

Bene quindi usare la leva dei finanziamenti nazionali per indirizzare verso obiettivi comunitari. Bene anche battersi contemporaneamente perché in H2020 siano inseriti riferimenti espliciti a temi di interesse strategico per il nostro paese, legati a quegli studi classici che alimentano direttamente e indirettamente lo spazio dei beni culturali, storici, archeologici ecc. che per noi sono risorsa primaria.

Ma torniamo all'orientamento della ricerca.
Le Università si stanno rivelando molto più flessibili e adattabili di quanto ci si poteva attendere. L'assunzione di ricercatori industriali, la creazione di centri interdipartimentali di ricerca industriale, l'orientamento del dottorato verso le imprese anche con lo strumento dell'alto apprendistato, la formazione integrativa, le strutture dedicate alla creazione d'impresa e al trasferimento tecnologico sono elementi di uno scenario – lato “offerta” – in grande movimento anche grazie allo stimolo e apporto di risorse delle politiche regionali.

Non altrettanto può dirsi sul lato imprese. Fatte le debite e significative eccezioni, le piccole imprese sembrano fare fatica a intercettare l'offerta di competenze e di capacità di ricerca che viene dal mondo universitario e dai centri di ricerca. L'Università ha la “materia prima”, laureati e competenze di ricerca e culturali a tutto campo, ma il sistema imprenditoriale fatica ad approvvigionarsene. Paradossalmente sembra esserci più offerta di ricerca di quanta sia la domanda. Certamente non è così, ma allora dove sono i problemi?

Dal mio osservatorio ne vedo principalmente due e sono grandi. Il primo è certamente quello delle delle dimensioni delle nostre Pmi. Molte sono super-small su scala europea e non riescono ad avere sufficiente massa critica (e un sufficiente bilancio) da potersi “permettere” investimenti consistenti in personale e in strumentazioni per avviare autonomi programmi di ricerca e sviluppo. Aggregazioni di imprese operanti in aree comuni possono forse essere una risposta ma si scontrano con la competizione interna. Un'alternativa è quella di strutture per ricerca on demand diffuse sul territorio (le università e centri) alle quali le piccole e medie imprese possano rivolgersi e interagire singolarmente o in forma aggregata senza bisogno di grandi investimenti.

E qui si presenta il secondo problema.
Per avviare programmi di ricerca bisogna sapere con precisione cosa può essere affrontato con un progetto comune università-impresa e cosa no. Occorre conoscere il modus operandi delle università e anche i vincoli normativi (che sono tanti) entro i quali occorre muoversi, oltre che, ovviamente le potenzialità del settore, i "competitor" e il quadro internazionale. Insomma siamo in una fase in cui occorre “scouting” della domanda di ricerca ancor più che “marketing” dell'offerta. Potremmo trovarci nella bizzarra situazione di essere pronti per H2020, ma solo in parte.

Dario Braga è prorettore alla ricerca dell'Università di Bologna

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Shopping24

Dai nostri archivi