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Questo articolo è stato pubblicato il 04 aprile 2012 alle ore 08:14.
L'ultima modifica è del 04 aprile 2012 alle ore 06:41.
Il più grande patrimonio del mondo, con enormi potenzialità di crescita non ancora sfruttate.
È la sconfortante situazione dell'industria della cultura e della creatività in Italia, che potrebbe invece ambire ai risultati ottenuti dalla Francia, dalla Germania e dal Regno Unito. Ovvero puntare a generare 70 miliardi di euro di Pil (ora il nostro Paese è a 36 miliardi) e occupare nel settore un milione di persone (ora lavorano 470mila addetti).
Sono i risultati di una ricerca condotta da Giacomo Neri, professore di strategia e politica aziendale all'università Cattolica di Milano, presentata lo scorso fine settimana in un seminario a porte chiuse organizzato presso Firenze dalla Fondazione Industria e cultura. La presidente della Fondazione, Patrizia Asproni, ha riunito intorno a un tavolo esperti del settore per fare il punto sullo stato della nostra cultura e sulle modalità per renderne più efficiente la gestione, concentrandosi anche sul rapporto tra pubblico e privato.
La ricerca ha rappresentato la base di partenza della discussione. Il documento ha infatti fornito una fotografia del nostro patrimonio, di come lo tuteliamo e, soprattutto, valorizziamo. A tal riguardo, lo studio ha messo a punto un indicatore, definito Roca (return on cultural assets, ritorno sugli asset culturali), che utilizza il rapporto tra il Pil del settore culturale dei Paesi europei presi in considerazione e il numero dei siti Unesco posseduti da quelle realtà (l'Italia è in testa alla classifica con 44 siti, seguita dalla Spagna con 41).
Ebbene, attraverso l'indicatore Roca si è potuto constatare che in Gran Bretagna il ritorno commerciale della cultura è tre volte superiore a quello nostrano. Un risultato che nel Regno Unito – dove la cultura genera un Pil di 78 miliardi di lire (il 3,8% del Pil nazionale) e riesce a occupare 850mila persone – è legato, più che alla consistenza del patrimonio storico e d'arte, allo sviluppo impresso alle industrie creative.
In Francia, però, è proprio il patrimonio storico-artistico a produrre un Pil di 81 miliardi (il 3,4% di quello complessivo), mentre in Germania è un mix di entrambi gli ambiti a portare il Pil al 2,5% (69,5 miliardi) e riuscire a reclutare oltre un milione di persone, ovvero il 2,9% degli occupati totali, quando in Italia ci si ferma al 2% (come detto, 470mila addetti).
A fronte di un ampio patrimonio – raccolto in più di 3.400 musei e 2mila siti archeologici, la maggior parte dei quali posseduti dai comuni (32%) e dallo Stato (22%) – come può l'Italia cercare di arrivare alle performance degli altri Paesi europei? La ricerca offre, anche attraverso l'analisi della gestione di luoghi d'arte stranieri (dal Louvre alla National gallery), alcuni spunti.
Per esempio, incrementare il numero dei visitatori (tra gli altri suggerimenti: accordi con tour operator, miglioramento dei siti internet dei musei, creazione di eventi capaci di costituire un richiamo), ottimizzare l'offerta dei servizi aggiuntivi, diversificarne l'offerta sulla base della clientela (ragazzi, famiglie, studiosi, corporate), ripensare gli spazi destinati alle strutture di accoglienza, così da migliorarne l'attrattività.
Inoltre, estendere l'uso del marchio di un sito culturale a una più ampia gamma di categorie merceologiche, oppure cederlo in licenza (come fa il Louvre, dove la valorizzazione del brand rappresenta il 37% delle entrate complessive) e, non ultimo, definire strategie più efficaci per attrarre fondi.
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