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Questo articolo è stato pubblicato il 06 aprile 2012 alle ore 08:04.
L'ultima modifica è del 06 aprile 2012 alle ore 08:20.

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Nell'ora dell'abbandono si può e forse si deve riconoscere a Umberto Bossi l'onore delle armi. Ciò che lui negherebbe a uno qualsiasi dei suoi avversari. Sta di fatto che in un Paese in cui le dimissioni non rappresentano un'abitudine diffusa, il vecchio autocrate ha saputo recuperare il senso della realtà smarrito per troppo tempo.

E ha compiuto un passo dignitoso, purché sia davvero irrevocabile e non serva solo ad alimentare nuovi intrighi di palazzo secondo il dualismo amici-nemici.

Certo, l'uscita di scena è conseguenza diretta di una vicenda che più squallida non potrebbe essere. Triste fine per l'uomo che aveva inseguito un'intuizione temeraria unita a un'ambizione fallimentare: dar corpo a una misteriosa identità «padana», dichiarare superata la nazione italiana, alimentare una confusa mitologia pseudo-celtica al limite del razzismo. Ma anche imporre nell'agenda politica la «questione settentrionale», restituire al Nord una parte delle risorse economiche a cui il segmento più produttivo del territorio nazionale era abituato a rinunciare a favore del Sud. Premiare l'operosità dei singoli e la fantasie delle imprese.

La biografia di Bossi contiene pagine irritanti e contraddizioni clamorose, ma non è la biografia di un politicante minore. È la storia dell'uomo che ha creato un movimento politico capace d'intercettare e anzi accendere per anni un sentimento collettivo. La Lega è stata il partito della Seconda Repubblica, qualunque cosa voglia dire questa espressione. Senza Bossi non ci sarebbe stato Berlusconi e quasi vent'anni di vicende italiane avrebbero avuto un volto molto diverso. Qualcuno dirà: sarebbero stati anni migliori. Può darsi, ma di sicuro diversi. Non avremmo avuto la scommessa perduta del bipolarismo e il sogno infranto di un federalismo velleitario.

Naturalmente la Lega di Bossi era tramontata da un pezzo. Da quando si era ridotta via via a un partito di gestione del potere e del sottogoverno. Da quando aveva accompagnato senza battere un colpo il declino di Berlusconi, illudendosi di essere il motore del governo. Fino alla rottura precipitosa dopo che la trapunta del potere si era lacerata. Un intreccio opaco che ha tradito proprio la base elettorale del Carroccio e di cui restano le macerie di oggi.

Gli ottimisti pensano che basti mettere Maroni al posto del leader storico, lasciando a quest'ultimo un incarico onorifico, per andare avanti come prima e magari riallacciare i rapporti con il Pdl in vista del 2013. Ma è più logico pensare che il partito, se vuole sopravvivere al suo fondatore, debba andare verso un rinnovamento pressoché totale del gruppo dirigente. I contorni dell'imbroglio al cui vertice c'era il tesoriere dimissionario sono troppo gravi per essere risolti con un piccolo «rimpasto» in via Bellerio. A meno di non abbracciare la teoria del «complotto» e incoraggiare un assurdo patriottismo di partito che avrebbe il solo effetto di radicalizzare quel che resta del movimento, spingendolo verso posizioni insensate.

Fa bene Maroni a chiedere che si faccia pulizia, purché non sia solo uno slogan volto a limitare i danni alle amministrative. Una Lega senza Bossi si può anche concepire, purché ci si renda conto che sarà un altro partito, con altre prospettive. Ovvio che un personaggio come Bossi, monarca assoluto per anni, non è sostituibile. Nel bene come nel male. Ma allora occorre voltare pagina con coraggio. Senza preoccuparsi delle future alleanze e dei residui privilegi. Quanto meno è un dovere verso l'opinione pubblica che ha creduto nel mito.

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