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Questo articolo è stato pubblicato il 10 aprile 2012 alle ore 08:06.
L'ultima modifica è del 10 aprile 2012 alle ore 09:44.

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Ci possiamo permettere il nostro straordinario patrimonio culturale? È una domanda che gli italiani tendono a rimuovere dai loro pensieri, orgogliosi come siamo da Nord a Sud del nostro retaggio di storia, arte, paesaggio, e preoccupati dalle urgenze personali e sociali. Ma è una domanda all'ordine del giorno. In una ipotesi di uscita "alta" dalla Grande Trasformazione dell'economia globale che stiamo vivendo, più o meno consapevoli, i beni culturali e l'intelligenza che attorno a essi si può applicare e alimentare sono una delle chiavi del rilancio italiano, come suggerisce il Manifesto del Sole.

Ma i gioielli di famiglia restano a ossidarsi o addirittura si vendono, se la casa va in disgrazia. Siamo in attesa di norme dettagliate sulla sponsorizzazione dei privati per gli interventi di restauro, dopo il caso del Colosseo. L'idea deve essere che chi tanto ha avuto da questo Paese anche in termini di immagine da spendere nel mondo, contribuisca alla manutenzione delle sue bellezze.

Ma questo non basta, e di certo non basterà quanto più i costi della stagnazione cresceranno. Difficile immaginare un contributo aggiuntivo delle Fondazioni bancarie nei prossimi anni, con le stime attuali sui dividendi degli istituti di credito. Eppure in una futura divisione internazionale delle competenze che ci veda come protagonisti e non solo come clienti, l'intelligenza applicata ai beni culturali ci spetta (ancora) di diritto. Non siamo leader mondiali nell'hardware o nelle biotecnologie, ma abbiamo un vantaggio comparato nel restauro, nell'archeologia, nella conservazione dei manoscritti che stentiamo a tradurre in "nuovi prodotti". Servono piattaforme digitali in inglese, giovani competenze con esperienze nei contesti all'avanguardia (Stati Uniti, Francia, forse presto anche Cina), serve una cultura della valutazione imparziale e codificata dei progetti che dobbiamo subito recepire dal contesto anglosassone. Potrebbero nascere molti più posti di lavoro nei prossimi anni da questa filiera, se ben collegata al turismo, all'edilizia e alla manifattura, di quanti non ne perderemo in industrie "mature". E molto potrebbe beneficiarne l'attrattività dell'Italia per gli investitori esteri, di cui tanto si è parlato di recente.

Ma il contributo del settore pubblico è imprescindibile, come nel resto d'Europa (si veda Financing the arts and culture in the European union, del Directorate General Internal Policies dell'Unione Europea). Con quali risorse? La stagione delle dismissioni pubbliche che si sta (ri)aprendo è forse un'occasione. Le valutazioni del Dipartimento del Tesoro parlano di un valore tra 239 e 319 miliardi di euro per gli edifici pubblici, mentre per i terreni le stime sono tra 11 e 49 miliardi di euro. La legge di stabilità 2012 ha destinato i proventi delle cessioni immobiliari dello Stato alla riduzione del debito pubblico. Anche il cosiddetto "federalismo demaniale" apre la strada a dismissioni di cespiti pubblici.

Tra le obiezioni che vengono avanzate rispetto ai piani di dismissioni pubbliche ci sono quelle equitative: si aliena un attivo pubblico, e magari si favoriscono i soliti noti. Oppure si aliena in una Regione per ridurre il debito pubblico generato dagli sprechi di un'altra. Perché non legare allora formalmente una quota dei proventi delle dismissioni alla riqualificazione e rilancio economico dei beni culturali? Regione per Regione la quota stabilita potrebbe finanziare progetti selezionati di valorizzazione di porzioni selezionate del patrimonio storico culturale, con un possibile volano per il turismo e gli investimenti esteri. Per i residenti della Regione si potrebbe prevedere l'accesso gratuito ai siti riqualificati, e alle manifestazioni culturali che vi si svolgessero. L'attenzione dei cittadini potrebbe aumentare, e con essa la domanda di trasparenza. Ridefinire il perimetro dello Stato significa anche scegliere quali porzioni di patrimonio pubblico si possono alienare, magari caserme o scuole inutilizzate da anni, non solo per ridurre il debito ma per finanziare la crescita mediante il rilancio dell'economia della cultura: se ben gestita, i suoi frutti arriveranno.

smanzocchi@luiss.it
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