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Questo articolo è stato pubblicato il 01 maggio 2012 alle ore 10:23.
L'ultima modifica è del 01 maggio 2012 alle ore 06:40.

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Più nolenti che volenti, stiamo adattando la nostra società al mondo nuovo oltre i confini del Paese e dell'Europa. Non tutte le modalità dell'adattamento sono scritte, ed è su questo che si discute e ci si divide. Ma su un punto sarebbe bene che élite e classi dirigenti convergessero: abbiamo disperatamente bisogno di costruire una cultura condivisa della valutazione.

La questione riguarda soprattutto il settore pubblico, ma non solo, ed è una chiave importante in un processo di apertura e di riduzione del provincialismo.
Tale buona cultura si fonda su almeno cinque cardini: la condivisione degli obiettivi finali della valutazione, l'autonomia dei valutatori rispetto a chi li nomina, la loro terzietà rispetto ai valutati, la loro legittimazione, e infine la trasparenza dei procedimenti di valutazione. Facile a dirsi, meno a farsi, da noi quasi impossibile. Eppure, non ha molto senso chiedere una «politica selettiva per l'innovazione industriale» senza affrontare questo tema.

In molti Paesi il settore pubblico sostiene l'innovazione e un motivo che si può addurre è che il vero processo innovativo è di per sé esposto a molti fallimenti e pochi successi. Siccome quei pochi successi garantiscono rendimenti (privati e sociali) assai elevati, se il mercato è riluttante a finanziare l'innovazione si potrebbe generare un risultato sub-ottimale e la mano pubblica può avere una ragione per intervenire. A patto però che la valutazione risponda ai criteri di cui sopra.
Non sembra che questo sia stato sempre il caso nell'esperimento di politica industriale denominato Industria 2015, impostato tra il 2006 e il 2008. Fu creata un'Agenzia nazionale dell'innovazione che nelle intenzioni avrebbe svolto l'attività di valutazione dei progetti innovativi secondo i criteri menzionati prima.

Per questo la direzione dell'Agenzia venne affidata a un tecnico (!) proveniente dal vertice della DG Ricerca di Bruxelles, Ezio Andreta, con iniziali dichiarazioni di ottemperanza ai cinque cardini esposti. Cosa successe dopo è difficile da decifrare e forse anche inutile: la conclusione fu che Andreta presto abbandonò e la gestione dei fondi di Industria 2015 (alcune centinaia di milioni) fu ricondotta dentro le rassicuranti volte del ministero dello Sviluppo economico.
Tuttavia, come spesso accade da noi, l'Agenzia continuò a esistere presso la presidenza del Consiglio, con compiti diversi e risultati a me ignoti. È evidente che queste esperienze suggeriscono di abbandonare nel nostro Paese la strada della selettività, e di percorrere quella degli interventi "orizzontali": meglio meno o zero incentivi, se questi vengono attribuiti con criteri oscuri. Anche se a volte ci potrebbero essere buone ragioni per azioni pubbliche mirate. Quello di una buona (e condivisa) cultura della valutazione è un punto che qualsiasi ministro dello sviluppo deve porsi.

Un altro tema è quello della valutazione della ricerca universitaria e dei concorsi accademici. Il dibattito su come valutare continua, ma dall'avvento dell'università di massa non riusciamo a venirne a capo. Questioni di metodo si intrecciano con questioni di scuola (e a volte anche di parentele), generando confusione tra obiettivi e strumenti. Anche qui autonomia, terzietà e trasparenza dei processi rafforzerebbero la legittimazione dei valutatori contribuendo a rafforzare una cultura diffusa. L'esito preferibile di un concorso universitario è che uno studioso della scuola A promuova un candidato della scuola B perché le regole e la pratica della valutazione - nonché la sua stessa convinzione - glielo suggeriscono. Un libro dei sogni? Forse, ma direi che se non ci adeguiamo presto alle migliori pratiche europee il declino si accentuerà.

Cosa rende così difficile per noi condividere e sostenere una cultura della valutazione secondo i criteri di cui sopra? Le motivazioni sono molte, ma la pratica della concertazione da noi per lungo tempo invalsa è un elemento rilevante. Scendendo dai piani nobili dei palazzi del potere ai corridoi un po' bui di segreterie e dipartimenti, più si concerta meno si valuta e seleziona virtuosamente. La concertazione con le rappresentanze degli interessi, nessuno escluso, va bene per individuare grandi linee programmatiche, ma non se impedisce di valutare in modo corretto.

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