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Questo articolo è stato pubblicato il 06 maggio 2012 alle ore 08:31.
L'ultima modifica è del 06 maggio 2012 alle ore 13:57.

Che cosa fare della Siria? Attraversando il confine libanese provo a chiederlo agli uomini dell'Onu che trasportano verso Damasco un centinaio di giubbotti anti-proiettile. Rispondono alla domanda con un sorriso sfuggente e il loro disagio è comprensibile: gli osservatori arrivati finora sono soltanto una cinquantina sui 300 previst. Non si poteva certo chiedere a uno sparuto drappello di baschi blu disarmati di far rispettare un cessate il fuoco violato sistematicamente sia dal regime sia dall'opposizione.

Per il portavoce della Casa Bianca il piano Annan sta fallendo. E Washington suggerisce che bisogna trovare alternative, senza dire quali. La Siria, il Medio Oriente, una primavera araba sempre più incerta, con il dossier incombente del nucleare iraniano, sono l'altra faccia della crisi che devono fronteggiare Usa ed Europa. Mentre le elezioni mettono alla prova gli europei (e poi gli americani) sulle questioni economiche e sociali più brucianti, i loro leader tra qualche tempo potrebbero trovarsi di fronte al dilemma tra pace e guerra: chiunque salga al potere non potrà ignorare la questione mediorientale e la sponda Sud che stanno tornando il teatro di una contrapposizione tra Est e Ovest, con gli arabi che dopo la defenestrazione di tre autocrati sono certamente meno disponibili rispetto al passato a subire imposizioni esterne.

La Siria è un banco di prova che coinvolge tutti, dalla Russia alla Cina, che non mollano Bashar Assad al suo destino, dagli Usa alla Nato, ancora assai incerti sul da farsi, dalla Turchia all'Iran, le due potenze che si giocano l'egemonia regionale, da Israele al Libano, che temono i contraccolpi di Damasco, dall'Iraq alle monarchie assolute del Golfo, diventate sponsor di una democrazia all'islamica ma che a casa loro rifiutano decisamente di adottare ogni assemblea eletta.

È una battaglia per la supremazia ma anche settaria e ideologica che non inizia con la primavera araba. Qui a Damasco, dove passa l'alleanza tra Iran, Siria ed Hezbollah libanesi, si percepisce la sanguinosa contrapposizione tra questo arco sciita e quello sunnita, costituito dalla petro-monarchie, dalla Turchia, dai Fratelli Musulmani e dai salafiti. L'Occidente e Israele sono contro Assad perché è il tallone d'Achille di Teheran: ma gli israeliani non si accontentano della testa di Bashar in cambio di un accordo internazionale che lasci proseguire all'Iran gli esperimenti nucleari, anche soltanto in campo civile. E gli stessi alleati islamici dell'Occidente schierati contro il regime siriano non appaiono in grado di fornire garanzie serie sul futuro: forse ne sanno qualche cosa i venti agenti francesi arrestati dai lealisti qualche tempo fa a Homs.

La situazione è bloccata. L'opposizione è incapace di far cadere il regime – che ha convocato domani azzardate elezioni politiche – mentre il potere degli Assad non riesce a venire a capo di una rivolta strenua. E anche un intervento straniero potrebbe non risolvere la questione ma accentuare l'estremismo settario e le divisioni confessionali, come già accadde nel confinante Iraq. Qual è il rischio per Stati Uniti ed Europa? Che altri decidano per loro, sia nel caso della Siria o dell'Iran, della pace e della guerra. Dopo avere fatto la voce grossa con Gheddafi, qui a Damasco, nell'epicentro del Medio Oriente, l'Occidente è nell'impasse di un'altra crisi che come quella economica forse ha una sola certezza: niente, o quasi, tornerà come prima.

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