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Questo articolo è stato pubblicato il 17 maggio 2012 alle ore 07:20.
L'ultima modifica è del 17 maggio 2012 alle ore 08:12.

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Fino a ieri si poteva pensare che Umberto Bossi avesse un futuro come patriarca della Lega. Un «grande vecchio» messo da parte, ma rispettato come si conviene al mitico fondatore del movimento
Dopo il dilagare dello scandalo che investe la «family» e l'ex leader in prima persona, c'è parecchio da rivedere in quello scenario.

Aspettiamo pure che l'inchiesta giudiziaria faccia il suo corso: sta di fatto che il verdetto politico di condanna è già stato emesso da un'opinione pubblica frastornata e indignata. Ed è un disastro per quel che resta del Carroccio.
Trascorrerà molto tempo prima che la Lega di Maroni torni a esercitare un qualche ruolo di rilievo sul palcoscenico nazionale, se mai ci riuscirà. Il leghismo avrà un senso solo nelle amministrazioni locali, collegato più alle persone che alla sigla (il caso di Tosi a Verona e di Fontana a Varese). Per il resto questo siluro esploso alla vigilia dei ballottaggi sembra voler accentuare tutti i pregiudizi anti-politici e anti-casta.
Come ribadisce ogni sera una nota trasmissione satirica di Sky, non è Beppe Grillo che fa campagna elettorale per sé, sono gli altri che la fanno per lui. E il caso Bossi è lì a dimostrarlo.

Lo sfacelo del sistema di potere leghista, costruito come una piramide blindata intorno a un clan familiare, getta ulteriore discredito sull'intero assetto partitico. Chi è esasperato dalle durezze della crisi economica, non fa troppe distinzioni. Ed ecco perché il Movimento 5 Stelle è dato da alcuni sondaggi oltre l'11 per cento nella prospettiva delle elezioni politiche.
Di fronte a un tale smottamento, colpisce la sostanziale assenza di risposte. La lista delle riforme su cui il capo dello Stato ha insistito più volte resta un elenco di buone intenzioni. Ieri sera Bersani garantiva che martedì prossimo sarà varato in Parlamento il taglio del finanziamento pubblico ai partiti. Ma si è arrivati tardi e male a una soluzione che non si capisce ancora quale sia. Le segreterie dei partiti non hanno mai dato l'impressione di entrare in sintonia con il sentire collettivo. Prima non capivano e quando hanno capito non sono state in alcun modo tempestive. Nel frattempo Grillo corre per la prateria.

«Una vittoria dei 5 Stelle a Parma cambierebbe il quadro in tutto il Nord – dice l'analista Luca Tentoni –. Alle politiche i grillini avrebbero la forza per danneggiare in forme imprevedibili soprattutto i candidati della sinistra». Qui infatti è il cuore del problema. Nell'ipotesi (molto plausibile) che non si voglia definire alcuna riforma elettorale e si torni a votare con il "Porcellum", un partito di Grillo all'11-12 per cento capovolgerebbe tutti gli equilibri. Sarebbe un forte condizionamento dell'asse Pd-Sel-IdV. Ridurrebbe a poco il ruolo del centro di Casini, comunque vorrà chiamarsi. E assumerebbe su di sé, in forme inedite, il ruolo di forza «corsara» a lungo esercitata da una Lega ora in disarmo.

È chiaro che se non cambia qualcosa prima del 2013, il sistema si candida al suicidio. Escluse riforme significative, cosa resta? Domenica su Repubblica Eugenio Scalfari giudicava «molto opportuna la formazione di una lista civica apparentata con il Pd e rappresentativa del principio di legalità». Qualcuno accosta a questa lista il nome di Saviano. Ma anche a destra Berlusconi dovrà immaginare una sua «lista civica» da collegare al Pdl per dare un segno di novità: soprattutto nei volti dei candidati. Quanto all'ex «terzo polo», Casini non aveva parlato di Partito della Nazione? Se è una cosa seria, dovrà affrettarsi: sta passando l'ultimo treno prima del collasso.

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