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Questo articolo è stato pubblicato il 27 maggio 2012 alle ore 13:47.
L'ultima modifica è del 27 maggio 2012 alle ore 13:48.

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«Se era necessaria una prova della validità della massima che le vie dell'inferno sono lastricate di buone intenzioni, la crisi economica in Europa l'ha fornita». La frase non è mia, ma di Amartya Sen in un articolo sul «New York Times» del 23 maggio, nel quale sottolinea poi che l'aspetto più inquietante dell'attuale malessere europeo è la sostituzione degli impegni democratici con i dettati finanziari da parte dei leader dell'Unione europea e della Banca centrale europea e indirettamente dalle agenzie di rating, i cui giudizi sono notoriamente inaffidabili. Con questa diagnosi è difficile non essere d'accordo e, non è un caso allora che tutta la politica europea risulti vaga e inconcludente nei fatti, ma martellante e precisa nei continui annunci mediatici, su una crescita che non arriva, su una giustizia sociale che sembra l'ultima delle preoccupazioni della maggioranza dei leader europei e su una Grecia che debba essere salvata e rimanere nell'euro oppure no. Il deficit decisionale della politica europea si ripercuote anche in Italia, dove leader vecchi e finti nuovi cercano di confondere la volontà popolare con l'idea di un capo che tutto decide per il bene comune, persino aldilà e al di sopra di chi è stato eletto dal popolo.

Questa è una vera minaccia per la democrazia che, per sua natura, come aveva già sottolineato Hans Kelsen, non tollera i capi. Lo ricorda straordinariamente nel suo ultimo libro Luigi Ferrajoli (Poteri selvaggi, Laterza, 2011, pagg. 25), il quale poi aggiunge che sempre i capi, tanto più se abbietti o mediocri, sono soggetti a continue autocelebrazioni, come esseri eccezionali e diretti interpreti degli interessi popolari.
Per la verità l'idea è antica e addirittura risale alla Repubblica di Platone (III, 397 D), il quale scrive che «se si presentasse alla nostra città (…) chi in virtù della sua abilità sapesse recitare tutte le parti e imitare ogni modello, non mancheremmo certo di venerarlo come un uomo divino e meraviglioso, e ricco di fascino. E, tuttavia, gli diremmo anche che non c'è posto nel nostro Stato per un uomo come lui, né che ci potrebbe essere e lo dirotteremmo verso altre città, non prima di avergli versato sul capo essenze profumate e di averlo bendato con nastri di lana». Purtroppo Platone è lontano.

Sembra allora inquietante che i leader europei, escludendo qualunque discussione aperta con i cittadini, abbiano questa settimana ancora fallito nelle ambiziose iniziative necessarie per uscire dalla crisi e, per quello che riguarda il problema europeo di maggior rilievo, si siano da un giorno all'altro contraddetti; ciò risulta in modo particolare a proposito del salvataggio della Grecia e del fallimento totale della politica di austerità, con pericolosi disagi nella vita dei cittadini e un loro allontanamento dal mondo della politica, che li sovrasta in una sorta di nuvola surreale.
Non ci confortano per nulla le dichiarazioni ufficiali di responsabili delle finanze europee che stanno preparando i piani per un'uscita della Grecia dall'euro o i proclami della Banca centrale tedesca che rassicura che le conseguenze dell'uscita della Grecia dall'euro sarebbero facilmente controllabili. La situazione pare invece profondamente diversa. Il primo disastroso effetto che cade nella totale indifferenza sarebbe quello che coinvolge l'euro, per sua natura moneta irrevocabile e non una sorta di porta girevole dalla quale si possa entrare ed uscire a piacimento, che in questo caso si affosserebbe velocemente.

È allora chiaro che questo pericolo di cataclisma finanziario non riguarda solo l'Europa, ma preoccupa, e non poco, anche gli Stati Uniti, come ha dimostrato l'interesse e la spinta alla soluzione del problema da parte del Presidente Obama, e fors'anche la Cina, le cui economie in questo momento stanno anch'esse pericolosamente rallentando. Che il rischio di una scomparsa dell'euro provochi una depressione globale è fin troppo ovvio se si considera che è la moneta della seconda più grande economia mondiale, con il maggior sistema bancario. Naturalmente la situazione colpirebbe immediatamente, oltre che la Grecia, il fondamentale sistema bancario in Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia e una grossa caduta del prodotto interno lordo anche in Germania, dove l'interesse da pagare sul debito pubblico non potrebbe certo essere più vicino allo zero. E probabilmente una depressione negli Stati Uniti d'America e in Giappone sarebbe inevitabile.

La soluzione immediata, in attesa che i leader occidentali riescano finalmente ad occuparsi della giustizia sociale in Europa e nei loro Paesi, risulta ormai solo quella di evitare il fallimento dello Stato greco e provvedere a concedere nuovi prestiti allo stesso, interrompendo la selvaggia e depressiva politica di austerità e di rigore che non solo ha ridotto la Grecia alla povertà ma, cosa ancor più grave, ha messo la finanza a governare gli Stati, tutelando con politiche discriminanti solo la grande finanza speculativa e creditrice, in violazione di ogni giuridica garanzia e tutela dei debitori, costretti a impoverirsi, solo per far fare utili alle banche creditrici. Se si vuol salvare la democrazia europea, la tutela dei debitori deve essere garantita.

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