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Questo articolo è stato pubblicato il 29 maggio 2012 alle ore 07:45.
L'ultima modifica è del 29 maggio 2012 alle ore 08:55.

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Il sistema bancario europeo era intrinsecamente fragile già prima della crisi greca: lo aveva rivelato con chiarezza lo shock dei mutui subprime e della Lehman nel 2007-2008, e da quel momento, nonostante i reiterati stress test, il problema non è mai stato affrontato adeguatamente. Nelle ultime settimane, diversi politici e funzionari di primo piano hanno parlato in modo più esplicito della necessità di una "unione bancaria", vale a dire un quadro di riferimento federale per le politiche bancarie.

Fra questi, Christine Lagarde, direttrice generale del Fondo monetario internazionale, che il 17 aprile ha dichiarato: «Per spezzare il circolo vizioso tra Stati sovrani e banche serve una maggiore condivisione del rischio a livello transnazionale nel settore bancario. Nel breve termine sarebbe utile un fondo, comune a tutta l'Eurozona, in grado di rilevare direttamente quote azionarie delle banche. Guardando più in prospettiva, l'unione monetaria dovrà essere supportata da un'integrazione finanziaria più spinta, che secondo la nostra analisi dovrebbe assumere la forma di una supervisione comune, con un'autorità di risoluzione unica per il settore bancario, un meccanismo di emergenza comune e un unico fondo di garanzia dei depositi».

Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ha fatto eco alle dichiarazioni della Lagarde il 25 aprile, quando, parlando di fronte al Parlamento europeo, ha dichiarato che considerava «evidente che la stabilità finanziaria dev'essere una responsabilità comune nel quadro di un'unione monetaria» e che «per garantire il buon funzionamento dell'Unione economica e monetaria è necessario rafforzare la supervisione e i meccanismi di risoluzione per il settore bancario a livello europeo».

Molti esperti ora concordano sul fatto che un'unione bancaria, insieme a un qualche tipo di unione delle politiche di spesa e di bilancio, rappresenti una condizione necessaria per un'unione monetaria sostenibile e per risolvere l'attuale crisi dell'Eurozona. Ma nonostante la creazione di un'Autorità bancaria europea, lo scorso anno, le misure intraprese sono state modeste. La Spagna è un ottimo esempio: il Governo di Madrid avrebbe potuto chiedere al Fondo europeo per la stabilità finanziaria un prestito finalizzato specificamente alla ricapitalizzazione delle sue banche, ma ha preferito fare da sola con la nazionalizzazione del traballante colosso Bankia e una nuova tornata di svalutazioni contabili legate al mercato immobiliare, che hanno suscitato forte scetticismo sui mercati.

L'integrazione delle politiche bancarie è complicata per diversi motivi. Il Regno Unito, principale snodo finanziario europeo, non fa parte dell'euro e si oppone a ogni cessione di sovranità nel campo della supervisione del settore. Alcuni Stati membri continuano a sostenere i colossi nazionali o a difendere i legami tra banche locali e comunità politiche, legami che di fatto rendono le banche strumenti delle politiche industriali dello Stato. Un altro ostacolo al cambiamento è il fatto che i Governi, oberati di debiti, possono esercitare pressioni sulle banche nazionali per spingerle ad acquistare i loro titoli di Stato (è la cosiddetta repressione finanziaria). Naturalmente un'unione bancaria potrebbe comportare aspetti controversi relativi alla condivisione del rischio o ai trasferimenti tra nazione e nazione.

Tutti questi fattori impediscono all'Europa di costruire in tempi rapidi un'architettura coerente per la sua unione bancaria. I leader europei, se da un lato sono più che disposti a discutere su come prevenire crisi future, dall'altro spesso chiudono gli occhi sulla crisi in corso. La loro retorica tende a evocare un mondo immaginario in cui la finanza è stabile, gli incentivi economici sono in linea con le responsabilità sociali e i sentimenti morali e le autorità pubbliche hanno una perfetta comprensione del sistema finanziario. Questi voli di fantasia sono un lusso che ormai non ci possiamo quasi più permettere, specialmente di fronte all'urgente necessità di gestire la crisi e garantire la sopravvivenza dell'Eurozona.

Tre priorità sono evidenti. La prima è che la condivisione del rischio fra le banche dev'essere la più ampia possibile. È irragionevole che i Governi europei rimborsino tutti i creditori delle banche che falliscono, compresi i creditori chirografari in tutti i casi registrati fino a oggi (tranne due banche in Danimarca e alcuni istituti di credito piccolissimi in altri Paesi) e i creditori subordinati in quasi tutti i casi registrati nell'Europa continentale.
Negli Stati Uniti, invece, i processi di ristrutturazione hanno costretto quasi sempre i creditori a farsi carico di perdite pesanti, tranne una manciata di casi rilevanti come la Bear Stearns, la Fannie Mae, la Freddie Mac, l'Aig e le case automobilistiche.

L'Europa dovrebbe optare per un approccio che consenta di evitare gli incentivi perversi che hanno tenuto i contribuenti ostaggio dei creditori delle banche fallite. Ci sono molte complesse questioni legali e finanziarie in gioco, ma la scelta è politica.

La seconda priorità è la necessità di dotarsi di una capacità operativa di ristrutturare le banche senza fare affidamento su autorità nazionali che sono venute meno ai doveri di supervisione. Serve una task force temporanea ed efficiente di professionisti delle ristrutturazioni, in grado di intervenire in tempi rapidi per conto di tutta l'Eurozona, e di gestire i legacy assets (le attività "tossiche" rimaste nei bilanci della banca). Questi strumenti attualmente non esistono. Precedenti significativi sono l'Autorità di supporto per il settore bancario istituita in Svezia nel 1992, o - in contesto differente - la Treuhandalstalt creata in Germania dopo la riunificazione.

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