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Questo articolo è stato pubblicato il 02 giugno 2012 alle ore 08:25.
L'ultima modifica è del 02 giugno 2012 alle ore 10:34.

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Il cinquantesimo della «Nota aggiuntiva» è passato nel silenzio. Peccato, perché il 22 maggio 1962 Ugo La Malfa, allora ministro del Bilancio e della programmazione economica, aveva perfettamente descritto al Parlamento molte delle conquiste dello sviluppo economico e sociale italiano durante il boom e identificato gran parte degli interventi che, se realizzati, ne avrebbero corretto gli squilibri.
Il quadro diagnostico di La Malfa si concentrava su tre campi di intervento: il settore agricolo; l'industrializzazione nel Mezzogiorno e lungo la dorsale adriatica; i consumi e servizi pubblici, in particolare istruzione, sanità, previdenza sociale e gestione del territorio. Strumenti per raggiungere questi obiettivi vengono identificati negli Enti di sviluppo per le zone agricole; nella programmazione regionale; e nella volontà politica di perseguire un'espansione dei consumi pubblici superiore a quelli privati.

Nel campo dei consumi e dei servizi pubblici, di particolare rilevanza è la discussione sulla scuola, in cui «la crisi è gravissima» con il rischio di innescare «un processo cumulativo, pericolosamente vicino al punto in cui diverrà irreversibile». Tre in particolare le preoccupazioni: modesta spesa in istruzione delle famiglie, struttura delle remunerazioni e del riconoscimento sociale che scoraggia l'investimento in capitale umano; e scarsità dei fondi destinati alla ricerca scientifica e all'istruzione.
I motivi per cui la Nota e il «Piano quinquennale di programmazione economica» rimasero in sostanza inattuata sono innumerevoli. La Nota era un atto di governo ma La Malfa, scoprì presto di essere isolato, tanto preoccupata era la classe politica di distribuire prebende piuttosto che di costruire strumenti per superare le criticità del momento. L'architettura delle politiche fu probabilmente l'aspetto più debole della Nota e ne rese più difficile la difesa di fronte agli attacchi dei conservatori. Gli strumenti operativi previsti, su tutti il Cipe, si dimostrarono inefficaci.

Eppure, la Nota del 1962 rimane ancora attuale. Anche perché l'Italia del 1962 è simile in fondo alle economie emergenti di oggi. Il censimento del Centenario dipingeva una situazione simile a quella degli attuali Bric: la speranza di vita alla nascita era inferiore a quella nei Bric nel 2009 (con l'eccezione dell'India), mentre l'analfabetismo era più diffuso che in Cina e Russia, più o meno allo stesso livello che in Brasile, e molto meno drammatico che in India. Indubbiamente i Bric sono tra loro diversi e ciò rende ovviamente più difficile rapportare la Nota alla loro odierna realtà. Ciò premesso, è difficile negare che l'approccio di quel documento sia di sorprendente attualità.
In ciascuno di questi Paesi (con la parziale e paradossale eccezione della Russia) la programmazione economica è viva e vegeta. In Cina rimane centrale, anche se la sua natura è cambiata dal primo Piano quinquennale del 1953. Lo stesso vale per l'India. Come scrive il primo ministro Manmohan Singh nella prefazione all'undicesimo Piano quinquennale, «per l'India l'impegno a pianificare lo sviluppo economico riflette la determinazione della nostra società a migliorare le sorti economiche della nostra popolazione e sottolinea il ruolo del governo nel realizzare questo obiettivo». Quanto al Brasile, la presidente Dilma Rousseff rivendica con orgoglio che «il recente ciclo di sviluppo è stato sostenuto da politiche pubbliche innovatrici».

Mezzo secolo dopo, invece che risolvere alcune lacune lasciate in eredità dal boom come sarebbe stato possibile nel 1962 e stanno facendo adesso i Bric, l'Italia deve tappare le voragini lasciate dalla crisi. Adesso come allora, aspettare che le cose si aggiustino da sole sarebbe però un lusso. Al contrario, il governo deve giocare un ruolo molto più grande in alcune aree anche quando si ritira da altre. Quali? L'emissione di euro-obbligazioni permetterebbe di finanziare grandi opere infrastrutturali a scala europea, non solo reti di trasporto e comunicazioni ma anche progetti di ricerca e sviluppo. La loro identificazione, le forme di sostegno finanziario e di governance più adatte e l'analisi delle ricadute sul territorio passano anche da un serio esercizio di programmazione, cui l'Italia deve prepararsi in anticipo per poter poi difendere il proprio interesse nazionale sulla base di calcoli ben fatti, e non elettoralistici.
La programmazione italiana esprimeva la consapevolezza dei limiti della trasformazione economica indotta dal "miracolo economico" e indicava la necessità di superare gli squilibri del Paese. Della rinuncia sostanziale a programmare, con la scusa della "congiuntura", il Paese sconta ancora le conseguenze.

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