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Questo articolo è stato pubblicato il 03 giugno 2012 alle ore 09:54.
L'ultima modifica è del 03 giugno 2012 alle ore 10:16.

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Prima la rivolta di piazza Tahrir e la sostituzione di Mubarak con i militari, poi ieri la condanna del raìs all'ergastolo tra le proteste di chi chiedeva pene analoghe per i due figli e gli alti funzionari del regime. La transizione egiziana sembra non finire mai. Nel frattempo gli investitori sono scomparsi; il deficit statale è all'8,7% del Pil; le riserve valutarie sono precipitate a 15,7 miliardi: tre mesi d'importazioni per un Paese che compra all'estero tutto il grano e buona parte del petrolio. Il turismo è fermo, l'industria arranca, la disoccupazione corre.

Qualsiasi cosa accada da oltre un anno, nulla fa uscire l'Egitto dalla sua crisi permanente verso un orizzonte di nuova stabilità: un governo, regole, riforme. Ogni avvenimento rende il futuro più confuso anziché più chiaro, e porta quasi sempre con sé brevi, laceranti e forse preordinate esplosioni di violenza: contro i copti, all'ambasciata d'Israele, in uno stadio, di nuovo in piazza Tahrir.

A novembre c'erano state le prime elezioni democratiche, le parlamentari. Ma la maggioranza che ne è nata non ha formato un Esecutivo che governasse né una commissione costituzionale che fissasse le nuove regole del gioco, come è accaduto in Tunisia.

C'è stato poi il voto presidenziale. Posto che oggi in Egitto qualcuno sappia quali sono i poteri di un presidente, i due candidati che hanno conquistato il ballottaggio hanno reso il quadro ancora più pesante e complicato: un "fratello musulmano" contro un simbolo del vecchio regime.

In mezzo a questo guado fra un nuovo incerto (l'Islam politico) e un vecchio che si vende come novità (l'ancien régime), ieri l'Egitto radicalmente polarizzato ha assistito alla caduta di un faraone. Così almeno avrebbe dovuto essere la condanna all'ergastolo di Hosni Mubarak, presentatosi di nuovo in tribunale disteso su una barella ma con un paio di occhiali scuri perché nessuno ne scoprisse lo sguardo. Il giorno finale di un potere durato 30 anni e ora inviso al popolo.

Ma alle presidenziali di due settimane fa un egiziano su quattro ha votato democraticamente per il candidato che rivendicava una continuità con Mubarak. Non sono pochi i nostalgici in Egitto. E ieri, alla lettura della sentenza molti hanno gioito e protestato: chi ritenendo la condanna sufficiente o non abbastanza grave. Ma molti altri hanno taciuto, convinti che prima o poi il rais tornerà o sarà vendicato dalla storia.

Anche se è stato umiliato dal giudizio popolare e non tornerà mai più al potere, il faraone non è così sconfitto come si vuole credere. La sua apparizione in tribunale e la partenza su un vecchio elicottero russo verso la prigione non chiudono una vicenda storica. Piuttosto la cristallizzano. L'Egitto che Mubarak si lascia alle spalle non è un Paese finalmente liberato. Non sarà libero di decidere il suo futuro ma, al contrario, condannato a scegliere fra due paure che non garantiscono stabilità: quella dell'islamizzazione e quella del vecchio regime.
La sola vittoria che resta a un dittatore sconfitto è di lasciare dietro di sè solo paura.

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