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Questo articolo è stato pubblicato il 07 giugno 2012 alle ore 07:06.
L'ultima modifica è del 07 giugno 2012 alle ore 08:44.

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Era tra i giganti della letteratura del secolo scorso Ray Bradbury, scomparso ultranovantenne a Los Angeles dopo una carriera iniziata presto. «Avevo 12 anni quando vendetti la mia prima storia a una rivista e la inviai senza specificare l'età perché altrimenti l'avrebbero respinta», aveva confessato pochi mesi fa a biografo, chiarendo che sin da allora aveva chiari in mente i temi affrontati nella maturità.

Autore di oltre trenta libri diventati leggendari (tra i capolavori, Cronache marziane del 1950 e Fahrenheit 451 del 1953), Bradbury ha firmato anche seicento racconti, decine di testi teatrali e adattamenti cinematografici. In Becoming Ray Bradbury, il saggio di Jonathan Eller uscito lo scorso anno (University of Illinois Press), si dà conto della difficile infanzia di quello che molti giudicano il padre della fantascienza contemporanea (è figlio di un operaio a lungo senza lavoro dopo la crisi del '29 e di una casalinga di origine svedese) e si sottolineano le doti di narratore che ne favorirono il precoce esordio. Ebbe rapporti difficili con gli editori a inizio carriera a causa, spiega Eller, della carica innovativa contenuta in romanzi che poco meno di un secolo fa erano ritenuti non adatti al mercato di massa. La stessa diffidenza colpì James Ballard nel Regno Unito. Solo poi la critica ha compreso che, con la fantascienza, Bradbury e Ballard indagavano sulle dinamiche nascoste della contemporaneità.

La fantascienza era per Bradbury solo un genere utilizzato per dar conto di ciò che il presente cela. Ecco perché la sua ricerca lo apparenta ai maestri dell'antiutopia della prima parte del secolo, a cominciare da Orwell. E Cronache marziane, sotto questo profilo, va ritenuto il racconto di un "altrove" possibile, di un modello alternativo rispetto a quello codificato nell'Occidente. E su Marte, del resto Bradbury ha più volte detto che sarebbe stato saggio fondare una colonia dove sperimentare regole diverse. «Obama - disse una volta - dovrebbe annunciare il nostro ritorno sulla Luna. Da lì è possibile lanciare una missione verso Marte. Agli americani spetta il compito di scoprire una nuova terra emulando così Cristoforo Colombo». Credeva nell'idea al punto da destinare all'eventuale progetto una percentuale dei diritti d'autore che, in virtù della popolarità dei suoi libri, arrivavano copiosi.

Di che cosa voleva parlare in Fahrenheit 451, breve apologo di straordinaria intensità che il regista François Truffaut trasformò in splendido film negli anni 60? Con una vicenda in cui ci sono roghi di libri e si loda l'amore per la letteratura è quasi automatico pensare a un monito sui rischi di totalitarismo e censura. Certo, il tema è presente, il romanzo si propone come un'alternativa meno tragica a 1984 di Orwell. C'è pure dell'altro, si è poi compreso grazie ai suggerimenti di Bradbury: il libro fu scritto per mettere in guardia contro i pericoli della potenza di fuoco di stampa e tv, contro media invasivi e capaci di plagiare la coscienza. Del resto le ipotesi di McLuhan a Bradbury non piacevano e faceva poco per nasconderlo.

A lui guardavano i musicisti per trarre ispirazione. Un suo testo degli anni 70 fece nascere uno dei migliori album dei Weather Report, molte canzoni in America e nel Regno Unito sono piene di riferimenti a Bradbury. Ora che è scomparso mancheranno le sue provocazioni (Steve Jobs era uno dei bersagli preferiti), ma restano i libri. Da non considerare più, per favore, appartenenti al genere della fantascienza.

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