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Questo articolo è stato pubblicato il 13 giugno 2012 alle ore 07:21.

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Cultura e sviluppo: il binomio – che ha già innervato il manifesto per la Costituente della cultura presentato sulle pagine del Sole 24 Ore a febbraio e da cui è scaturito un ampio dibattito – è stato rilanciato ieri nell'auditorium del museo Maxxi di Roma da Roberto Grossi, presidente di Federculture, nel corso della presentazione del rapporto annuale della federazione.

«Cultura - e con essa etica – e sviluppo possono e devono marciare insieme», ha affermato Grossi.
Si tratta, però, di capire a quale concetto di cultura ci si rivolge. Grossi ha sgombrato il campo da equivoci sedimentati in tanti anni di dibattiti sui beni culturali come leva di crescita. «La cultura non è il petrolio», ha dichiarato e va anche abbandonata la definizione affine di "giacimenti culturali". «La cultura di cui parliamo e sulla quale richiamiamo l'attenzione – ha proseguito il presidente di Federculture – è un'altra ricchezza e porta con sé altri valori. È stratificata nel tempo – dai dipinti delle caverne preistoriche alla lingua contemporanea – ed è diffusa ovunque, perché accompagna il percorso dell'uomo nella storia».

Allo stesso modo, bisogna intendersi sulle prospettive che si intendono perseguire. Lo sviluppo non è solo allontanare lo spettro del default, ridurre lo spread tra Btp e Bund, risollevare il Pil e ridare fiato al potere d'acquisto. Tutte misure che in questo momento di grave crisi sono certamente necessarie per riconquistare la fiducia nella ripresa. Ma quest'ultima è anche altro. Ed è solo partendo dalla convinzione che siamo giunti al capolinea di un mondo, al fine corsa di un modello di società, che si può iniziare a risalire la china. Che è quella di uno sviluppo sostenibile, di «una nuova idea di progresso – ha sottolineato Grossi – che ricongiunga il benessere economico alla qualità della vita, il mercato a un sistema di maggiore uguaglianza delle opportunità, l'interesse generale alla facoltà di esercitare la libera espressione di ogni individuo». In questa prospettiva, la cultura non solo non è in contrasto con l'economia e con i meccanismi finanziari, ma su di essa «cioè sulle espressioni dell'arte e dei saperi – ha aggiunto Grossi – si pongono le basi per costruire un modello di società».

Anche perché la cultura, ha dichiarato nel corso della successiva tavola rotonda Ivan Lo Bello, vicepresidente di Confindustria, «rafforza la qualità civile del Paese».
Insomma, «la cultura per far crescere l'Italia». Uno scenario in cui l'arte – ha commentato Grossi – non sia considerata «un binario morto, ma inevitabile e necessaria come l'acqua». Un bene prezioso che negli ultimi dieci anni (2001–2011) gli italiani hanno ripreso a "consumare": sono andati di più a teatro (+17,7%), hanno ascoltato concerti di musica classica (+11%), sono entrati nei musei (+6%). Se sul decennio l'andamento è senz'altro positivo, i dati del 2011 sul 2010 mostrano, però, segnali di inversione: si assottigliano le presenze nei teatri (-2,7%), ai concerti classici (-3,8%), nei musei e nei siti archeologici (-1,3 per cento).

La crisi ci ha senz'altro messo del suo, ma è proprio in questo momento che vale la pena scommettere sulla cultura come generatore di sviluppo. Occorre, però, un importante cambio di passo. «Serve – ha affermato il presidente di Federculture – una rivoluzione culturale non "per" ma "della" cultura. Partire cioè dalla diffusione della conoscenza e dei valori della nostra tradizione culturale e della nostra identità per superare il naufragio delle idee e delle risorse creative. Una rivoluzione che riconosca la centralità della persona come cittadino, lavoratore, imprenditore, rispetto all'espropriazione causata dalla cattiva politica e dall'ignoranza».

I presupposti ci sono: abbiamo un grande patrimonio culturale, la nostra industria culturale ha superato i 68 miliardi di euro e occupa oltre 585mila addetti. Il problema di questo capitale è, però, che non è utilizzato bene. Da troppo tempo è assente «una visione strategica dello sviluppo entro cui attrarre programmi di sostegno e un quadro di riforme – ha affermato Grossi – capace di garantire un'offerta culturale di qualità e sistemi di gestione autonomi dallo Stato e più efficienti». D'altra parte, le risorse per la cultura si sono continuamente assottigliate (si vedano le tabelle a fianco) e il connubio pubblico-privato resta faticoso.
Su quest'ultimo aspetto il ministro dei Beni culturali, Lorenzo Ornaghi, ha però assicurato che si sta lavorando per rendere il rapporto, in particolare sul versante fiscale, più fluido: «Sono convinto – ha commentato – che l'intervento dello Stato nel settore culturale sia essenziale, ma non si può escludere il privato».

Il vicepresidente della Camera Rocco Buttiglione (Udc) ha infine auspicato una spending review del ministero dei Beni culturali, perché «ha una struttura che impedisce di spendere in tempo utile i soldi assegnati. Recuperiamo quelle risorse e impegnamole dove c'è più urgenza».

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