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Questo articolo è stato pubblicato il 14 giugno 2012 alle ore 07:11.

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Tra i divari che attraversano l'Europa ce n'è uno che ha radici lontane e che ne spiega molti altri: è quello nella composizione del capitale delle nazioni europee. Si discute spesso dei ritardi dell'economia della conoscenza nell'Europa del Sud, ma per quantificarli compiutamente si può guardare alla dinamica degli investimenti prima della Grande Crisi.

I Paesi del Sud condividono con quelli dell'Est una tendenza di investimento molto orientata al materiale (impianti e macchinari) e poco all'immateriale (software e informazione computerizzata; proprietà intellettuale codificata; competenze manageriali ed organizzative). Nel Sud Europa si utilizzano insomma tecniche di produzione più physical capital intensive, mentre i Paesi del Centro e Nord Europa investono molto più in "intelligenza" reificata. Nel decennio prima della crisi, come ricordava Delors ieri sul Sole24 Ore, la apprezzabile crescita europea nascondeva queste tendenze dell'accumulazione. Anche se nel Nord Europa non è tutto oro quello che riluce, basti pensare alla difficile congiuntura inglese, non è un caso che i paesi del Sud Europa stiano soffrendo le conseguenze più profonde della crisi.

Soffre la Spagna, che ha investito eccessivamente in infrastrutture materiali (quanti aeroporti inutilizzati?) ma poco in istruzione come indicano le statistiche Pisa, soffre l'Italia dove la dinamica della produttività del lavoro italiana era già negativa nel decennio passato ed il contributo del capitale intangibile alla crescita del valore aggiunto per ora lavorata pressoché nullo.
Dal momento che gli investimenti hanno effetto non solo sulla domanda, ma anche sull'offerta e sulla produttività del lavoro, gli Eurobond contribuiranno meglio alla convergenza se estesi agli investimenti intangibili, sotto la supervisione della Commissione e con un rilevante salto di qualità nell'operato delle classi dirigenti nazionali. Il quadro di riferimento europeo esiste già ed è la Strategia di Europa 2020 nella quale non a caso i maggiori ritardi si riscontrano nel Sud Europa.

Per quanto concerne la responsabilità delle elite nazionali, è tempo che si superi l'ottica del passato nella quale gli investimenti tangibili sono più rassicuranti perché più agevolmente "rendicontabili": si tratta di una prospettiva ormai superata e profondamente fuorviante nell'attuale competizione globale tra sistemi economici. Valutare le competenze non è solo possibile ma necessario, ed a livello europeo e globale vi sono criteri sempre più condivisi - anche se migliorabili - di misurazione della qualità e delle prestazioni. Il punto generale è che le infrastrutture materiali, da sole, bastano sempre meno per un Paese che ambisca a collocarsi nelle fasi a monte di processi produttivi sempre più organizzati su scala globale, le fasi più schermate dalla competizione di prezzo e a più elevato valore aggiunto come ci ricordano i ricercatori del Fmi (Changing Patterns of Global Trade, Strategy, Policy, and Review Department, 2012).

Per tutti i Paesi del Sud Europa è necessario intraprendere il sentiero dell'investimento intangibile se vorranno uscire dalla trappola della bassa produttività, delle ragioni di scambio declinanti, della perdita di quote nel commercio globale di beni e, sempre più, di servizi.
C'è di più. Un recente rapporto della Fondazione Olivetti sul capitale intangibile nei poli d'innovazione del Piemonte mostra che le imprese che più investono in capitale umano ed innovazione sono quelle che de-localizzano significativamente meno delle altre (http://www.fondazioneadrianolivetti.it). È tempo di colmare - una volta superate le emergenze che ci affliggono - un deficit culturale delle classi dirigenti italiane, specie quelle pubbliche da Nord a Sud: quello che consiste nel trascurare il giusto mix di investimenti tangibili ed intangibili. Non possiamo più permetterci questo retaggio: gli Eurobond - se ben "disegnati" - possono contribuire anche a questo.

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