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Questo articolo è stato pubblicato il 20 luglio 2012 alle ore 08:59.

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Tra carri armati nelle strade, civili in fuga, timori di inflitrazioni terroristiche, notizie incontrollate, il regime di Bashar Assad tenta il colpo di coda per sopravvivere: ma sulla Siria, tra Est e Ovest, è muro contro muro. Per la terza volta Russia e Cina hanno detto «no» a una risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu, un documento presentato dai Paesi occidentali in cui si minacciavano sanzioni contro il regime nel caso di mancato rispetto del piano dell'inviato delle Nazioni Unite Kofi Annan.

Un veto «deplorevole», secondo la Casa Bianca, contraria all'estensione della missione degli osservatori Onu, un'operazione che comunque esisteva ormai soltanto sulla carta perché i caschi blu, disarmati, sono confinati da settimane negli hotel di Damasco (nella foto, ribelli nella capitale).

Dalle strade in fiamme della capitale alla nuova guerra fredda all'Onu: il veto di Mosca e Pechino può indignare ma non stupire. Non è certo con il linguaggio doppio della diplomazia che si risolve la crisi siriana. L'inviato delle Nazioni Unite e della Lega Araba Kofi Annan si dichiara deluso dell'insuccesso ma il suo piano approvato alla conferenza di Ginevra era una cosa assai diversa da questa risoluzione: prevedeva una transizione con un negoziato tra Governo e opposizione, era così dettagliato che veniva salvato anche il vetusto partito Baath.

Mosca e Pechino si oppongono a ogni intervento internazionale in base al principio che a casa propria vogliono fare quello che vogliono. Con il cinismo caratteristico delle oligarchie, non hanno in grande considerazione le sorti del popolo siriano ma piuttosto tendono a evitare precedenti e ad allontanare ogni possibile minaccia, anche futura, alla loro sovranità. La Siria non sarà la Libia, dicono i russi mentre Putin ritiene che la guerra a Damasco sia una guerra contro Mosca.
La Russia può accampare qualche fondata ragione per giustificare il veto ma non ha fatto quasi niente - almeno finora - per trovare un'alternativa a Bashar Assad e al suo clan che in ogni caso non potrannno più governare la Siria. Hanno invece continuato a rifornirne gli arsenali e a stampare la carta moneta siriana. Se la Russia voleva tornare protagonista sulla scena internazionale e in Medio Oriente in questa fase sta perdendo un'opportunità.

Gli Stati Uniti, seguiti da europei, turchi e arabi, hanno tenuto un comportamento doppio e ambiguo. Al tavolo negoziale continuavano a parlare di transizione guidata dei poteri, dando l'impressione di volere una soluzione concordata. In realtà l'America, sin dall'inizio della rivolta, intendeva spazzare via il regime di Assad, alleato di ferro dell'Iran e degli Hezbollah: un'ottima moneta di scambio per Barack Obama, in piena campagna elettorale, per convincere gli israeliani a congelare i piani d'attacco all'Iran.

Ripensiamo per un momento alla passeggiata dell'estate scorsa ad Hama dell'ambasciatore americano Robert Ford, acclamato dagli insorti. Un gesto senza precedenti e forse un po' sospetto: nessun ambasciatore Usa va a spasso in una città in rivolta nel cuore dell'ostile Medio Oriente senza importanti garanzie di sicurezza. Ford evidentemente sapeva già cosa si poteva e doveva fare in Siria.

Follow the money, segui il denaro, per capire il repentino sgretolamento del regime. A Doha il Syrian Business Forum dell'opposizione ha da poco istituito un fondo di 300 milioni di dollari: 150 sono già stati spesi, in parte per la guerriglia del Free syrian army, in parte per efficaci operazioni coperte. Considerati gli ultimi risultati dei ribelli, i russi più che arrabbiarsi con l'Occidente dovrebbero prendersela con se stessi per il credito che continuano a dare a un regime fallimentare e senza futuro. Nella nuova guerra fredda forse Mosca ha già fatto un passo falso.

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