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Questo articolo è stato pubblicato il 04 agosto 2012 alle ore 08:58.

Alla fine della guerra, nell'Europa continentale, la "politica" e gli stessi stati nazionali pativano una forte delegittimazione. Tanto nella Francia, che cercava di dimenticare l'onta di Vichy, quanto nella Germania e nell'Italia, sconfitte e umiliate, era palpabile il fallimento sia della "politica" sia dello stato.

Avevano fallito in due delle loro funzioni essenziali: garantire sicurezza e benessere. All'impotenza dei governi nella Grande Crisi era seguita un'arrogante pretesa di onnipotenza che aveva precipitato il continente nell'orrore di una guerra totale, sofferta soprattutto da inermi popolazioni civili. Sia la crisi sia la guerra avevano esposto il re "politico" in tutta la sua nudità. Il superamento di un trentennio (1914-1945) di crisi europea poteva realizzarsi solo con una nuova legittimazione della "politica", tramite una rinnovata fiducia dei cittadini nella capacità delle istituzioni democratiche di garantire sicurezza e sviluppo. Ciò era chiaro nella mente di De Gasperi, di Adenauer, di Schuman. Dopo il duro inverno del 1947, anche gli Stati Uniti compresero l'importanza di rilegittimare in Europa il sistema democratico: il Piano Marshall fu lo strumento scelto per sostenere le fragili democrazie europee e rilanciare la difficile la collaborazione tra popoli che si erano orrendamente combattuti fino al giorno prima.

I padri dell'Europa unita compresero che la cessione di sovranità era un modo per ricreare nei popoli la fiducia nella politica nazionale rendendo impossibili nuove guerre (non a caso si cominciò nel 1951 con il carbone e l'acciaio) e creando un largo mercato motore di benessere dopo l'impoverimento prodotto dalle autarchie. Non fu un percorso né facile né idilliaco: le resistenze degli interessi costituiti furono enormi in ogni Paese. Fu la "politica", guardando oltre il futuro immediato, a essere l'artefice della propria rilegittimazione. Il resto venne con la crescita rigogliosa nell'"età dell'oro" dell'economia europea: lo straordinario successo economico diede credibilità tanto alla politica nazionale quanto alle istituzioni europee.

Mezzo secolo dopo il trattato di Roma, alla vigilia della crisi attuale, l'integrazione europea era molto cresciuta. Era tuttavia debole la legittimazione democratica delle istituzioni di Bruxelles. Se, nell'immediato dopoguerra, la cessione di sovranità era stata strumento di rilegittimazione delle élites politiche nazionali, nei decenni successivi queste sono state troppo gelose delle proprie sfere di influenza per immaginare e realizzare una più compiuta democrazia europea.
Cinque anni di crisi economica hanno eroso la legittimazione sia delle istituzioni europee sia dei governi nazionali. Come negli anni Cinquanta la crescita economica aveva cementato le une e le altre, così oggi la crisi di alcuni paesi rischia di sgretolare lentamente il lungo lavoro di integrazione. Il vascello che navigava a vele spiegate regge male il mare in tempesta. Il sistema decisionale comunitario fatica a coagulare compromessi al tempo stesso utili all'Europa e accettabili sia dai paesi "forti" sia da quelli in crisi.

I populismi nazionalistici prendono fiato in molti Paesi: minoranze aggressive tengono in ostaggio alcuni governi. Un senso d'impotenza si fa strada anche in leader politici solidi e maturi come se sessant'anni di storia contassero e insegnassero nulla.
Negli anni Cinquanta fu l'economia a restituire legittimità alla politica. Oggi tocca a quest'ultima restituire il favore salvando l'economia. C'è ampio consenso che nel medio termine l'architettura basata sull'euro richieda "più Europa": nuove cessioni di sovranità nel controllo dei bilanci pubblici, nella vigilanza bancaria, nella risoluzione delle crisi degli intermediari finanziari. Ma servono anche le misure immediate invocate dai Paesi più deboli. Il compromesso tra le due esigenze è difficile per la non contemporaneità dello scambio: esborsi immediati contro impegni di lungo andare sempre revocabili.

I partiti politici italiani possono fare moltissimo per aiutare a uscire dall'impasse. Possono impostare subito la propria campagna elettorale su proposte condivisibli e credibili di rilancio dell'integrazione europea impegnando su questo tema la propria credibilità nella prossima legislatura. Non solo: formulino proposte e impegni coraggiosi per una Bruxelles più democratica. E si impegnino a negoziare su questo terreno con gli altri Paesi, anzitutto con i partiti appartenenti al proprio gruppo parlamentare di Strasburgo. Una convinta scommessa per "più Europa" darebbe forza alle richieste di sostegno immediato al debito accumulato da anni per la nostra insipienza. A meno che l'apparentemente facile "Piano B" non lavori già come un tarlo nella mente anche degli esponenti politici più affidabili. In questo caso, solo in questo caso, ci sarebbe motivo di perdere speranza.

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