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Questo articolo è stato pubblicato il 18 agosto 2012 alle ore 08:20.

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Le privatizzazioni sono improvvisamente tornate di moda. Non appena il ministro dell'Economia, Vittorio Grilli, vi ha messo il proprio sigillo annunciando un piano quinquennale di dismissioni di entità attorno all'1% del Pil annuo, sono improvvisamente emerse una serie di proposte più o meno praticabili e più o meno dettagliate. Tutte fanno leva principalmente sull'alienazione degli immobili - di proprietà in larga parte degli enti locali - mentre si percepisce un silenzio quasi imbarazzato sulle partecipazioni societarie. I più spavaldi sollecitano la vendita delle municipalizzate, passaggio del resto quasi obbligato data la crisi della finanza locale. Ma che dire dei gruppi partecipati dal Tesoro?

Evidentemente, il loro trasferimento da una tasca all'altra dello Stato (da Via XX Settembre alla Cassa depositi e prestiti) non è né una risposta, né un cambiamento.

Oggi il governo, direttamente o attraverso la Cdp, è presente in sei imprese quotate in borsa (Eni, Enel, StMicroelectronics, Finmeccanica, Terna e Snam). Nel 2011 i suoi pacchetti azionari valevano circa l'8% di tutta la capitalizzazione boristica italiana, e le aziende controllate pesavano per un terzo. Per fare un paragone, in Svizzera - paese che nell'Indice delle liberalizzazioni l'Istituto Bruno Leoni elegge a benchmark per la libertà di borsa - il peso del pubblico è inferiore al 2%, riconducibile alla sola presenza della Confederazione in Swisscom. Vanno poi considerate le tante aziende non quotate (tra cui alcune potenzialmente di grande valore quali Poste, Ferrovie dello Stato, Inail, Rai...). Queste realtà possono e devono essere privatizzate, sebbene in alcuni casi tale processo presupponga o la piena apertura del mercato, o la riorganizzazione interna delle aziende per disgregare i monopoli, o entrambe le cose.

Privatizzare le società è importante per ragioni che vanno ben al di là del mero "fare cassa" e abbattere il debito (e con esso la spesa per interessi, quantificabile in 4-5 centesimi di minore spesa corrente per ogni euro di minor debito). L'esperienza storica con le privatizzazioni (anche in Italia) mostra che, se "ben condotte", esse producono molteplici benefici. Anzitutto tipicamente la privatizzazione è associata con un miglioramento dell'efficienza aziendale: lo abbiamo visto, nel nostro paese, perfino nei casi di cessione parziale, dove i vecchi carrozzoni paraministeriali sono stati costretti a rispettare la disciplina imposta dagli azionisti privati.

Secondariamente, la fuoriuscita dello Stato dal mercato tende ad associarsi a un irrobustimento della competizione: per quando il quadro di regole possa essere solido, la presenza di incumbent pubblici scoraggia i nuovi entranti i quali, non senza ragione, temono che le loro controparti siano "più uguali degli altri" in quanto gli interessi dell'azionista (lo Stato) entrano in conflitto con l'interesse generale ad avere un mercato più contendibile.

Come scrivono Magda Bianco, Silvia Giacomelli e Giacomo Rodano in un'indagine su concorrenza e regolamentazione condotta per la Banca d'Italia, «la diffusione della proprietà pubblica... può costituire una fonte di distorsione e di restrizione della concorrenza».

Se l'interventismo pubblico non solo non è desiderabile, ma è addirittura dannoso, esso va rimosso in ogni sua forma, incluso il ricorso a veicoli formalmente privati (come la Cdp) o a leggine che concedano potere senza responsabilità (per esempio il golden power). La necessità dei politici di avere la loro Disneyland fatta di nomine, consulenze e favorucci non è un argomento sufficientemente forte da giustificare tale situazione, ma è l'unico argomento razionale e onesto: non vi è altra spiegazione per uno Stato benzinaio, elettricista, produttore di elicotteri, assicuratore, ferroviere, cinematografato, eccetera. Nessuna di queste attività ha risvolti di sicurezza nazionale tale da spiegare una presenza pubblica così pervasiva.

Oggi il settore pubblico tiene in pancia partecipazioni per un valore stimabile nell'ordine dei 100-150 miliardi di euro. Questo significa che il debito pubblico è sovradimensionato in pari misura e che la spesa per interessi evitabile è attorno ai 4-7,5 miliardi di euro all'anno. In più, la presenza pubblica è un ostacolo alla concorrenza e alla crescita.Privatizzare non è solo una politica di contenimento del debito: è anche lotta agli sprechi intesa nel senso più genuino del termine.

Carlo Stagnaro è direttore ricerche e studi dell'Istituto Bruno Leoni.

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