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Questo articolo è stato pubblicato il 29 agosto 2012 alle ore 07:51.
L'ultima modifica è del 29 agosto 2012 alle ore 08:22.
È facile essere amici nella buona sorte, ma Reginald Bartholomew apparteneva a quella rara categoria di uomini che sanno essere amici in ogni circostanza, non solo nei tempi felici. Amico dell'Italia e degli italiani, in questo caso. Al punto di fare dell'Italia (la terra dei suoi antenati) la patria d'elezione e di Roma la sua città, quando nel 1997 lascerà l'ambasciata di Via Veneto e la carriera diplomatica.
Era stato, diciamolo pure, molto più di un ambasciatore nel quadriennio in cui aveva retto la carica su mandato di Bill Clinton. E continuerà negli anni successivi, come presidente di Merrill Lynch Italia, a esercitare un'influenza tanto discreta quanto rilevante sulle relazioni fra Roma e Washington. Quasi vent'anni di storia fra le due sponde dell'Atlantico sarebbero stati diversi se non ci fosse stato Bartholomew dietro le quinte. L'espressione "eminenza grigia" è abusata, ma se si vuole indicare qualcuno che non cessa di studiare la realtà e le persone, che non si stanca di allacciare fili e di avviare a soluzione i problemi, ebbene "Reggie" seppe essere tutto questo al massimo livello.
Aveva una qualità che solo i diplomatici di razza possiedono: parlava con franchezza, nel caso anche con durezza, e andava dritto al punto senza ipocrisie. Si trattasse di questioni politiche o economiche, non amava i giri di parole. Sia pure con tatto, amava giungere in fretta all'obiettivo. Era merito dell'ottima scuola a cui si era formato, quella di Henry Kissinger. E più ancora delle prove a cui la vita l'aveva sottoposto. Era un uomo per i lavori difficili, o per meglio dire un uomo d'azione. Ambasciatore in Libano al tempo della missione multinazionale degli anni Ottanta: appena arrivato a Beirut, un attentato di "hezbollah" distrusse la sede della rappresentanza americana. Pochi mesi dopo ci sarebbe stata la strage dei 241 marines. Sottosegretario di Stato per i problemi del disarmo e del controllo degli armamenti: seppe immergersi nel caos seguito alla fine dell'Urss per evitare che le armi nucleari diventassero strumento di ricatto in mano ai dittatori locali, in questa o quella repubblica autonoma. E poi la crisi dei Balcani, gli incarichi di mediatore in un'area incandescente, la nomina a rappresentante permanente presso la Nato.
Quando atterrò a Roma, nel 1993, Bartholomew era uno dei più importanti esperti del Dipartimento di Stato per il Medio Oriente e l'area balcanica. La scelta aveva un significato preciso: Clinton e il suo segretario di Stato Christopher intendevano confermare il ruolo chiave dell'Italia negli equilibri internazionali. La guerra fredda era conclusa, ma l'instabilità nella regione mediterranea non era mai stata così grave. Tuttavia il caso volle che l'arrivo del nuovo ambasciatore coincidesse con l'esplodere di Tangentopoli. Una vecchia classe dirigente veniva disfatta per via giudiziaria, un'altra non era pronta a prenderne il posto. Accade dunque che un ottimo conoscitore del Medio Oriente e dei Balcani si trovi a misurarsi in Italia con una crisi senza precedenti. E qui nasce, se così possiamo dire, un altro Bartholomew. Conosce i protagonisti della politica italiana, ne diventa in qualche caso amico, aiuta gli Stati Uniti a individuare nuovi interlocutori e vive fino in fondo l'infinita transizione dalla prima a una confusa seconda repubblica. Frequenta con assiduità Francesco Cossiga, Giuliano Amato, Gianni Letta, Massimo D'Alema, Lamberto Dini, Piero Fassino, Gianfranco Fini come pure Gianni De Michelis, Franco Bassanini e tanti altri.
È attento all'evoluzione della sinistra e favorisce la comprensione fra il Dipartimento di Stato e i maggiori esponenti dell'ex Pci: D'Alema in primo luogo, destinato a diventare presidente del Consiglio poco prima dell'offensiva della Nato contro la Serbia di Milosevic. Ma esamina con altrettanto interesse la nuova destra, da Berlusconi a Fini. Nell'autunno dell'anno scorso il ritorno a New York insieme a Rose-Anne, inseparabile compagna di vita. Un velo di tristezza negli occhi, la promessa di mantenere i legami con la patria italiana. Ed è stato così, fino all'ultimo.
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