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Questo articolo è stato pubblicato il 29 agosto 2012 alle ore 07:41.
L'ultima modifica è del 29 agosto 2012 alle ore 08:26.

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Anche se sull'onda dell'emozione della sentenza della Corte di Strasburgo in molti sparano a zero sulla legge 40, concediamo a quella legge qualche valore residuo: ha provato a fare ordine nel nostro Paese nella giungla (almeno così qualcuno la definiva) della fecondazione in vitro (probabilmente senza esserci riuscita fino in fondo); ha tentato (forse utopisticamente) di assicurare i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito (Art 1.1); ha dimostrato che sui temi eticamente sensibili gli "esperti" non si riescono a mettere d'accordo; che l'istituto del referendum spesso non serve, visto che alcune decisioni giuridiche cancellano le opinioni democraticamente espresse dalla maggioranza dei cittadini.

Possiamo condividere in generale il parere espresso dai giudici di Strasburgo quando affermano che "ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare". Aggiungo però anche "il diritto ad essere informata correttamente", perché proprio il tema della informazione ha, a mio parere, un ruolo centrale in questa tematica. Quando un paio di anni or sono mi era stato chiesto di esprimere un parere in occasione del 20° anniversario della diagnosi preimpianto, avevo affermato che il miglior modo per celebrare quella ricorrenza era quello di garantire alle coppie un'informazione capillare.

La mia attività professionale mi consente di dire che questo obiettivo non viene raggiunto in moltissimi casi. E siccome la diagnosi preimpianto è, di fatto, una diagnosi genetica, da genetista sottolineo che troppo spesso non viene offerta una consulenza genetica mirata, non viene esplicitato né il rischio di errore diagnostico, né la probabilità che l'embrione bioptizzato diventi un neonato, né i rischi per il feto connessi a una procedura che, per definizione, richiede un concepimento in vitro. Nello specifico della sentenza, non posso condividere l'idea di giustificare la diagnosi preimpianto sulla base del diritto riconosciuto all'aborto.

La legge 40 e la legge che tutela l'interruzione volontaria della gravidanza hanno differenze sostanziali: nel primo caso si tratta di un progetto di gravidanza nel quale l'ammissione della diagnosi preimpianto decisa dalla sentenza della Corte puntualizza la finalità selettiva eugenetica di questa tecnica, là dove la legge dell'aborto consente di non accettare una gravidanza già in atto. Si tratta in ogni caso di una sentenza discriminatoria nei confronti del concepito che secondo una visione cara agli oppositori della legge 40, ritorna ed essere considerato un "qualche cosa" e non un "qualcuno", contraddicendo la sentenza europea dello scorso ottobre in tema di brevettabilità degli embrioni, che ha riconosciuto al concepito la dignità di essere umano. Da ultimo merita una riflessione la stretta e mal definita linea di demarcazione che separa la diagnosi genetica finalizzata alla salute dell'embrione dalla diagnosi eugenetica. Ci sono, tutto sommato, ragioni che mi inducono a ritenere che questa sentenza, piuttosto che una celebrazione dei diritti umani, sia espressione di un riduzionismo antropologico.

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