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Questo articolo è stato pubblicato il 29 agosto 2012 alle ore 07:44.
L'ultima modifica è del 29 agosto 2012 alle ore 08:27.

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La legge 40/2004 è stata oggetto di un numero non comune di sentenze che ne hanno attenuato la natura restrittiva e dimostrato la fallacia dell'impianto complessivo e di singole previsioni.

Alcuni principi essenziali sono stati dichiarati incostituzionali e modifiche sostanziali sono state recepite dall'aggiornamento delle Linee Guida, quali ad esempio: l'abolizione del limite numerico di embrioni da creare e trasferire nel grembo materno nonché dell'obbligo del trasferimento contestuale; l'impossibilità di applicazione astratta del principio di gradualità nell'impiego delle tecniche; l'organizzazione stessa dei centri e la composizione professionale dell'équipe; il riconoscimento che l'eventuale condizione infettiva del padre è di fatto ostativa alla procreazione.

Non ultima, la modifica che riguarda il diritto dei genitori a conoscere lo stato di salute degli embrioni: le Linee Guida del 2004 limitavano tale possibilità ai soli studi morfologici, mentre quelle del 2008 annullano questo limite (esorbitante la stessa legge) aprendo - in modo però ancora incerto - all'opportunità di effettuare anche analisi genetiche pre-impianto finalizzate a evitare la trasmissione di malattie ereditarie. Un problema di crescente importanza nella richiesta di accesso alla medicina della riproduzione e che fu anche il motore principale della campagna referendaria.

È in questo quadro che va letta la sentenza della Corte di Strasburgo, che in modo inequivocabile rileva l'incoerenza del sistema legislativo italiano che da una parte vieta la diagnosi pre-impianto e dall'altra autorizza quella pre-natale (quando il feto è già impiantato e in fase avanzata di sviluppo nell'utero materno) e l'eventuale conseguente scelta abortiva. Vi sarebbe una violazione della Convenzione europea sui diritti umani laddove essa riconosce il diritto al rispetto della vita privata e familiare: il tentativo di far nascere un bambino che non sia affetto dalla malattia genetica dei genitori rientra in questo diritto.

Quanto alla paura di pretese derive eugenetiche, in una società pluralista non pare bioeticamente accettabile imporre la difesa della vita embrionale come bene da porre sullo stesso piano del dovere di evitare gravi sofferenze al nascituro.

Il fallimento come struttura teorica e tecnica legislativa della legge 40/2004 è ormai evidente, con il rischio che ciò produca una nuovo darwinismo sociale che premia chi è in grado per censo o per cultura di districarsi tra le modifiche intervenute.

La sentenza europea dovrebbe indurre alla ragionevolezza di riaffrontare l'intera materia abbandonando l'idea che il diritto abbia un primato assoluto sulla scienza, evitando di imporre una morale unilaterale e riconoscendo che decidere su come riprodursi non è una concessione elargita dal potere sovrano, ma un diritto individuale né attribuibile, né revocabile, da una decisione politica soggetta al volere delle singole legislature e, dentro le singole legislature, da maggioranze variabili contingenti.

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