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Questo articolo è stato pubblicato il 05 settembre 2012 alle ore 06:38.

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«Non ho perso il tocco da comandante», si autocongratulò Vladimir Putin il 24 settembre dell'anno scorso, annunciando ai delegati del partito Russia Unita la decisione di ricandidarsi alla presidenza: tornerò. Di nuovo al Cremlino, dopo quattro anni, sicuro che tutto sarebbe stato come nei primi due mandati, 2000-2007. Ma quel giorno allo stadio Luzhniki non tutti applaudirono, neppure tra il pubblico del partito del potere. Mentre fuori, un Paese cambiato anche grazie allo sviluppo economico portato da Putin prendeva male e si faceva beffe della «rokirovka» - termine russo che negli scacchi sta per arrocco - con cui Putin e Dmitrij Medvedev si scambiavano il posto, rivelando candidamente il patto amichevole "tra tovarishi". Fine delle sperimentazioni sulla democrazia, sia pure gestita dall'alto. Oggi, secondo un rapporto pubblicato da un influente think tank russo, Minchenko Consulting Group, il sistema di governo di Putin è tornato ad assomigliare al Politburo di un tempo, una verticale del potere che culmina in una "super-élite" di otto uomini, distillato dei clan e dei gruppi di interesse a cui Putin si appoggia e di cui è arbitro. Fedelissimi del leader che occupano i gangli di economia, finanza e politica.
Trascorso quasi un anno costellato di proteste contro il regime, quel 24 settembre è la data della svolta: Putin è entrato in acque sconosciute, probabilmente non si aspettava di trovare ostacoli sul cammino. Né sembra attrezzato ad affrontare uno stato d'animo nuovo, di quella parte della popolazione a cui non basta più essere libera di scegliere come vivere senza avere voce sul piano politico. «Noi esistiamo», è uno degli slogan delle Pussy Riot. La condanna delle tre ragazze punk che hanno criticato il presidente nella Cattedrale del Salvatore è la risposta di Putin al dissenso, un esempio per tutta l'opposizione. Nessun dialogo, lo Zar non può permettersi cedimenti, guai a mostrarsi debole. Lo stesso approccio usato il 31 agosto per lo scrittore Eduard Limonov, leader del movimento di opposizione Altra Russia, arrestato a San Pietroburgo.
Il ritorno della paura
Dicembre 1995, seconde elezioni dal crollo dell'Urss. Gli anni in cui le speranze per la nuova Russia superavano i timori di un ritorno al passato: «Vedi - spiegava un amico - per tenere insieme un Paese tanto grande un regime ha una sola possibilità. Il suo controllo non può arrivare ovunque, perciò si usa la paura. Che faceva leva su di te se dalla finestra vedevi arrestare il tuo vicino, bastava questo per farti rigare dritto». Sembravano tempi lontani, la democrazia avrebbe avuto altri metodi. E invece, gli strumenti del controllo e della paura sono tornati di moda: i due anni di carcere alle Pussy Riot per intimidire l'opposizione, le leggi approvate alla Duma per tenerla in costante allerta: sanzioni più dure ai manifestanti, censura su Internet, controlli sulle organizzazioni che ricevono finanziamenti dall'estero.
I sostenitori di Putin come garante della stabilità e voce dell'orgoglio nazionale, la classe media sempre più lontana da lui e sempre più vicina a una visione aperta al mondo: misurare con i sondaggi l'appoggio dei russi a Putin non è semplice, ma se è attendibile un rapporto di 65/35 tra chi lo approva e chi lo disapprova, il presidente è ancora relativamente popolare, ma non più onnipotente. Dati simili «sarebbero un risultato eccellente per il presidente di un qualunque Paese democratico - scriveva in luglio su Vedomosti un famoso analista politico, Kirill Rogov - ma sono inaccettabili per uno Zar, per un leader inattaccabile e con un mandato indiscutibile. Putin ha perduto quel mandato».
Eppure, continua a comportarsi come se lo avesse. Del resto la decisione di ricandidarsi aveva lo scopo di preservare il sistema politico, centralizzato e autoritario, costruito nei primi anni del regno. La cosiddetta "verticale del potere", un intreccio di alleanze con cui Putin si è assicurato il controllo e la fedeltà degli uomini collocati a ogni livello dello Stato, sul piano politico ed economico. Il potere e le ricchezze del Paese in mano a un'oligarchia che diversi analisti chiamano lo "Stato profondo", una "super-élite" raccolta in gran parte dal passato del presidente - Pietroburgo, i servizi segreti, anche il club di judo dove si allenava - e che ha negli otto volti del "Politburo n.2" il suo primo cerchio, quello più vicino allo Zar (si veda l'infografica a lato). Banchieri, intermediari o burocrati divenuti potentissimi in un lampo. Gente che non vedeva di buon occhio le aperture di Medvedev, la possibilità di un pluralismo politico. Sono stati loro a organizzare il grande ritorno, sostiene tra gli altri un politologo che ha preso le distanze dal Cremlino dopo aver visto tramontare l'idea di un secondo mandato a Medvedev: «Poche coorti, che devono posizione e ricchezza a Putin - sostiene Gleb Pavlovskij - lo hanno spinto a ricandidarsi».
Una decisione che ha spaccato anche l'élite: secondo economisti liberali come Aleksej Kudrin (si veda il box), modernizzare e diversificare un'economia all'interno di un sistema politico chiuso è impossibile. «Vogliono tornare a uno Stato autoritario, ma senza le assurdità sovietiche» sostiene la sociologa Olga Kryshtanovskaja, intendendo per assurdità il sistema economico e l'ideologia di un tempo. Resta però un sistema assoluto che non prevede una separazione dei poteri: Putin, del resto, lo ha confermato chiamando al Cremlino i ministri più fidati, creando un'amministrazione presidenziale a cui viene attribuito il vero potere esecutivo nel Paese, al di sopra di ogni mandato costituzionale e di ogni responsabilità, al di sopra del debole Governo affidato a Medvedev.

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