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Questo articolo è stato pubblicato il 07 settembre 2012 alle ore 07:50.

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La sentenza di ieri emessa dalla Corte di Giustizia europea in tema di Ogm vale al di là del merito, pur importante. L'oggetto riguarda il diritto di una multinazionale - la Pioneer - a coltivare in Italia una varietà di mais geneticamente modificata, in assenza di normative regionali che pongano regole - attese da tempo - in materia di coesistenza tra Ogm e non Ogm.

Nel risolvere il caso a favore del ricorrente l'Europa rileva una lacuna legislativa italiana, e non è certo la prima volta. Lo Stato non può "fare blocco" dal momento che il mais Mon 810 è inserito dal 1998 nel catalogo delle varietà agricole comunitarie. Fin qui l'episodio. Ma al fondo c'è dell'altro. C'è il fatto che si abbia bisogno della via giudiziaria - è infatti pendente la causa di Pioneer presso il Consiglio di Stato - per decidere quel che dovrebbe essere statuito a livello politico. Sugli Ogm c'è insomma un'assenza di policy, che si fonda su una scarsa trasparenza informativa e trasforma i legittimi dubbi dei consumatori in fobie da usare come leva politica. Su questo triangolo - inerzia, opacità, uso della paura - poggia lo stallo attuale. Che per il nostro Paese vuol dire costi. Migliaia di tonnellate di mais gettate al vento a causa di parassiti, mentre l'applicazione delle moderne biotecnologie permetteva ad altri Paesi di ottenere varietà migliorate e resistenti.

La resistenza del fronte anti-Ogm ha radici antiche e perdura ancora adesso a livello comunitario. Come testimonia il tentativo di lasciare ai singoli Stati nazionali la decisione di permettere o meno gli Ogm. L'Europa delle molte velocità sbarcherebbe così nei campi, in un insidioso e asimmetrico patchwork decisionale. Di certo dannoso, economicamente e scientificamente.

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