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Questo articolo è stato pubblicato il 11 settembre 2012 alle ore 06:40.

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Se si analizza la dinamica del Pil degli Stati Uniti e la si confronta con quella delle altre maggiori economie avanzate, si ha l'impressione che il Paese da cui è partita la più grande crisi degli ultimi 80 anni se la sia cavata piuttosto bene. Il confronto con l'Italia, poi, appare addirittura impietoso per noi. Tra il 2007 e il 2011, infatti, il Pil statunitense è cresciuto in termini reali dello 0,8 percento. Niente di speciale, a dire il vero, ma l'Italia nello stesso periodo ha messo a segno un doloroso -4,4%, a cui si andrà ad aggiungere l'ulteriore calo del Pil previsto quest'anno a seguito delle misure di austerità che stanno gelando i consumi delle famiglie.
Tuttavia, analizzando le diverse componenti della domanda, si può osservare che tra il 2007 e il 2011 ciò che ha spinto gli Stati Uniti più dell'Italia non sono stati i consumi privati, perché fino allo scorso anno i nostri tutto sommato avevano tenuto (diminuendo dell'1% nel quadriennio considerato mentre quelli americani erano aumentati dell'1,8% grazie ai molti incentivi fiscali). Né la differenza l'hanno fatta gli investimenti lordi, tuttora inferiori in entrambi i Paesi del 17% circa rispetto ai livelli del 2007. Gli Usa, invece, sono cresciuti più di noi soprattutto perché l'export netto americano è andato meglio del nostro (in particolare nel 2008-2009, con il dollaro molto debole) e perché la spesa pubblica oltreoceano è cresciuta negli ultimi quattro anni del 5% in volume mentre da noi è diminuita dello 0,2 percento. Tant'è che il resto dell'economia, in altre parole l'insieme dei consumi e degli investimenti privati, negli Stati Uniti a fine 2011 era ancora inferiore in termini reali dell'1,8% circa rispetto al 2007.
Dunque se l'Italia piange (e con lei gran parte dell'Europa) gli Stati Uniti non possono certamente ridere. Anche perché i risultati sul piano della crescita economica che l'America ha conseguito, comunque molto magri, li ha pagati a caro prezzo sul fronte dei conti pubblici. Aver tenuto in piedi costosi incentivi fiscali ai consumi ed aver messo le ali alla spesa federale, infatti, ha generato un aumento senza precedenti del debito pubblico di Washington che, senza considerare il debito di Stati ed enti locali, è cresciuto secondo il Fondo Monetario Internazionale dal 67,2% del Pil del 2007 al 102,8% del 2011 con la prospettiva di balzare al 110,7% nel 2013. In sostanza, mentre l'economia italiana ha sofferto e soffre tuttora, ma il nostro debito pubblico in percentuale del Pil dal 2007 al 2013 risulterà cresciuto solo di 17,7 punti, il debito federale americano sarà invece aumentato di ben 43 punti in 6 anni. Un salto incredibile se si pensa che gli Stati Uniti sono riusciti a fare questo disastro in circa i due terzi del tempo che impiegarono i politici della Prima Repubblica a far crescere il debito pubblico italiano di 41 punti di Pil tra il 1985 (quando era all'80,2%) e il 1994 (quando raggiunse il 121,2%).
La situazione americana è dunque assai problematica, anche se i riflettori sono stati negli ultimi mesi più concentrati sulla scena dei debiti sovrani europei. Washington ha il debito pubblico fuori giri, al punto che il primo grande ostacolo che i contendenti alla presidenza, Obama e Romney, dovranno affrontare si chiama "fiscal cliff" e nessuno dei due ha ancora spiegato chiaramente come intende affrontarlo. Ci ha invece pensato recentemente l'Ufficio del Budget del Congresso (Cbo) a scodellare la patata calda dei conti federali sul piatto dei due sfidanti. Se l'anno prossimo verranno meno le deduzioni fiscali in scadenza che sinora hanno sostenuto i consumi delle famiglie e se contemporaneamente saranno adottati i tagli alla spesa già programmati per frenare il deficit, si avrà un impatto recessivo sull'economia americana valutabile come minimo in un calo del Pil dello 0,5% nel 2013. L'America sperimenterà dunque anch'essa gli effetti di una cura "à la Monti" qualora decidesse di scegliere risolutamente l'austerità. Finora, infatti, per non ricadere in recessione e per "crescere" Washington si è ben guardata dall'avviare una rigorosa cura dei conti pubblici ed ha semplicemente sostituito nel motore della propria economia il vecchio doping del debito privato (che alla fine portò al devastante scoppio della "bolla" nel 2008) con il nuovo doping del deficit federale, che da quattro anni consecutivi è superiore ai mille miliardi di dollari/anno (e che se continua così porterà allo scoppio del debito pubblico).
Il Cbo, tuttavia, ha cercato di indorare la pillola elaborando anche uno scenario alternativo che eviterebbe il contemporaneo venir meno immediato di tutti gli attuali (insostenibili nel lungo termine) sostegni all'economia, consentendo così a quest'ultima di non precipitare dalla "scogliera fiscale". In tal caso, gli USA scongiurerebbero la recessione il prossimo anno, ma il debito si manterrebbe intorno al 110% del Pil dal 2013 in poi, senza più scendere. Il che non è una prospettiva virtuosa per la prima potenza del pianeta.
Obama e Romney non possono certo dire apertamente agli elettori che porteranno l'America in recessione. Ma non possono neanche rimandare sino all'infinito la soluzione del rebus di un debito pubblico che procede al galoppo, mentre il peso dei mutui sulla casa è effettivamente sceso un pò ma continua a gravare pesantemente sulle famiglie statunitensi al punto che a fine 2011 era ancora pari al 65% del Pil. Sommando i due cancri del debito pubblico e dei mutui residenziali, in America si è arrivati lo scorso anno al 168% del Pil: un record storico. In Italia, invece, è vero che non abbiamo avuto la "crescita" ed ora soffriamo la recessione provocata dall'austerità, ma la somma dei due debiti alla stessa data era pari solo al 143% (cioè 120,1% di debito pubblico e 22,9% di mutui residenziali). Purtroppo, i due esempi dimostrano, ciascuno dalla propria angolatura, che conciliare riduzione del debito e crescita d'ora in poi non sarà facile per nessuno, nemmeno per chi vincerà le prossime elezioni americane, sia esso Obama o Romney.

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