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Questo articolo è stato pubblicato il 15 settembre 2012 alle ore 11:47.

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Tra la banca centrale americana e quella europea sembra in atto una gara a chi prende le misure più eccezionali. Al nuovo programma di acquisto di titoli deciso dalla Bce, la Fed ha risposto con un annuncio ancora più sensazionale, avviando un programma di acquisti di titoli ipotecari per almeno 40 miliardi al mese e dichiarando che i tassi a breve rimarranno a livelli eccezionalmente bassi almeno fino a metà del 2015, cioè ipotecando la strategia di politica monetaria dei prossimi tre anni. I mercati ovviamente stanno festeggiando a colpi di rialzi record e gli investitori sono euforici: negli Stati Uniti, nella settimana appena conclusa, i fondi comuni azionari hanno registrato nuove sottoscrizioni per più di 12 miliardi di dollari.

Il vero elemento in comune fra le scelte di Draghi e quelle di Bernanke è che le armi non convenzionali adottate hanno evitato un guaio peggiore: lì una grave recessione, qui il tracollo dell'euro. In un recente discorso il presidente della Fed ha citato studi econometrici secondo cui le due precedenti fasi di generosa immissione di liquidità (quantitative easing, per complessivi 2.300 miliardi di dollari) hanno evitato un tracollo del Pil di almeno tre punti e la perdita di due milioni di posti di lavoro. Insomma: le politiche monetarie eccezionali sono come la vecchiaia: non una gran cosa, ma assai meglio dell'alternativa. Il comunicato stampa della Fed sembra una sfida a un mercato del lavoro che si ostina a non reagire nei modi previsti: continueremo fino a quando i dati sull'occupazione «non miglioreranno stabilmente». Per stimolare l'economia, la banca centrale è ormai disposta a tutto: fra il proseguimento della manovra precedente (operation twist) e il nuovo pacchetto, verranno acquistati titoli per 85 miliardi di dollari al mese e i tassi non saranno rialzati quando finalmente si profilerà la ripresa.

Le incognite però non sono poche, soprattutto perché la risposta dell'economia alla riduzione dei tassi è limitata dal livello già basso raggiunto, mentre aumenta il rischio che (come dimostra l'euforia dei mercati) si alimenti un effimero rialzo dei mercati finanziari e delle merci o addirittura una prossima fiammata inflazionistica. Gli unici che sicuramente traggono vantaggio dalle decisioni di giovedì della Fed sono i debitori, cioè le famiglie e il governo che possono contare su un futuro a medio termine in cui i loro costi finanziari non aumenterannoMa le stime non prevedono un aumento consistente di nuovo credito e le riserve libere delle banche rimangono a livelli inusitatamente elevati. Ancora una volta, sono più evidenti i danni evitati dei punti messi a segno.

La situazione europea è ovviamente diversa, ma in un certo senso resa più delicata dalla reazione dei mercati, che ha rafforzato l'euro rispetto al dollaro, riducendo quindi la competitività delle esportazioni europee e soprattutto dei Paesi periferici che stanno cercando disperatamente di riportare in attivo gli scambi con l'estero per ridurre la dipendenza dal credito internazionale. L'Italia come è noto non è fra i Paesi più in difficoltà sotto questo punto di vista, ma a metà 2012 il saldo negativo delle partite correnti, pur dimezzato rispetto ad inizio 2011, era ancora di 30 miliardi di euro circa.

Ma mentre il problema della Fed è quello di una politica monetaria che non riesce a trasmettere impulsi abbastanza potenti all'economia, quello della Bce - come Mario Draghi non si stanca di ripetere - è che il meccanismo di trasmissione della politica monetaria ha smesso di funzionare da un pezzo. I tassi chiave che guidano l'azione di una banca centrale sono ormai tanti quanti sono i membri dell'unione monetaria e dunque lo stimolo deciso a Francoforte ha effetti completamente diversi da un Paese all'altro. I dati contenuti in due articoli dell'ultimo numero del Bollettino della Bce dimostrano come non solo i tassi del debito pubblico, ma anche il costo del finanziamento alle imprese e quello della raccolta bancaria si siano divaricati nel giro di pochi anni, ovviamente a vantaggio dei tedeschi e a scapito dei Paesi periferici. Il tasso dei nuovi prestiti alle imprese italiane è ora circa una volta e mezzo quello pagato dalle imprese tedesche; il costo della provvista delle banche italiane, che fino al 2007 era fra i più bassi dell'area euro, oggi è il più alto e addirittura triplo di quello delle banche tedesche, che pure erano arrivate all'appuntamento della crisi con bilanci da brivido e oggi ricevono un vantaggio comparato tanto cospicuo quanto immeritato.

La Bce è impegnata quindi in una vera e propria corsa contro il tempo: se queste differenze non verranno riassorbite in tempi ragionevolmente brevi, la politica monetaria non produrrà gli effetti desiderati, perché i tassi in Italia e negli altri Paesi periferici saranno troppo alti per stimolare l'attività produttiva e avere un effetto benefico per i debitori. E, ancora peggio, si rischia un indebolimento strutturale del nostro sistema bancario, che pure era indubbiamente fra i più robusti in Europa al momento in cui la crisi è scoppiata. Ma nessuna banca può passare indenne attraverso una prolungata fase di stagnazione, con relativo aumento delle perdite su crediti, aggravata da un aumento così vistoso del costo del denaro, cioè della materia prima dell'intermediazione.
Purtroppo sono questi i problemi che devono essere fronteggiati a Francoforte (ma non a Washington) e purtroppo non sono questi i problemi di cui vuole sentire parlare l'opinione pubblica tedesca, amorevolmente alimentata dalla Bundesbank, che rimane ossessionata dall'idea di una banca centrale troppo lassista ed è la causa non ultima della decisione della Bce di non seguire la strada della Fed nella riduzione ulteriore dei tassi di interesse. Non è necessariamente la ricetta americana quella che fa al caso nostro, ma almeno in Germania potrebbero capire da quello che sta avvenendo oltreoceano che non è il caso di sparare sul pianista.

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