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Questo articolo è stato pubblicato il 15 settembre 2012 alle ore 11:40.

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Finalmente ha parlato Morsi il «democristiano»: il moderato e non il fondamentalista; il rappresentante di un partito d'ispirazione religiosa che vuole essere di buon governo, non di un movimento teocratico.
Nel suo intervento pubblico, ieri al Quirinale accanto al presidente Napolitano, Mohamed Morsi ha detto quello che il mondo si aspettava e la logica chiedeva: il popolo americano e il suo governo non sono responsabili degli insulti al Profeta, non permetteremo violenze in Egitto, vogliamo collaborare e fare affari con l'Occidente. Ed è per questo che siamo qui in Italia.

Perché oltre il fumo delle auto incendiate, i muri scalati delle ambasciate e le bandiere fatte a pezzi, passato il venerdì di tempesta e forse altri giorni difficili, loro avranno bisogno di noi e noi di loro. Anche se bastano pochi violenti determinati per provocare grandi crisi, nei Paesi arabi in cui ha soffiato la Primavera araba (il termine positivo "Primavera" è solo esemplificativo, è entrato nel lessico politico) solo delle minoranze sono scese in strada. La grande maggioranza degli egiziani, dei tunisini, dei marocchini è interessata a trovare un lavoro, a vivere in economie che diano un futuro ai loro figli. E noi abbiamo bisogno di loro: perché sono Paesi nei quali si possono fare affari. Ma soprattutto perché è nostro interesse aiutarli ad uscire dalla loro depressione sociale economica: è una questione di stabilità giusto al di là del Mediterraneo.

La correzione moderata di Mohamed Morsi è stata rafforzata dall'annuncio dei Fratelli musulmani di non partecipare alla manifestazione anti-americana di piazza Tahrir, organizzata ieri dai salafiti e da gruppi sparsi di mestatori. Solo preghiera dentro le moschee e sit-in fuori. Niente presidi permanenti sulla piazza, oggi si torna a lavorare perché l'economia egiziana ne ha bisogno.
Niente tuttavia sarà esattamente come prima. Giorno dopo giorno Morsi si trasforma in un nuovo Nasser: Gamal Nasser era socialista, Mohamed Morsi islamista. Quello che li rende somiglianti è il forte nazionalismo, prima egiziano e poi arabo. Sul piano geo-politico se questo non porterà a pesanti cambiamenti, costringerà tutti a importanti correzioni. Barack Obama lo ha capito, sa che l'Egitto non è più quello ossequente di Mubarak: non è un nemico ma nemmeno un alleato. Sarà un partner, indipendente e spesso orgoglioso, da tenere in debito conto. Così come molti altri Paesi arabi nei quali abbiamo dato una mano a far vincere le Primavere.

Poi c'è l'aspetto economico. Se gli Stati Uniti e l'Europa non saranno arroganti come a volte sono stati in passato, in economia non cambierà nulla perché l'Egitto e gli altri Paesi della sponda Sud del Mediterraneo hanno bisogno di noi oggi più di ieri. I conflitti, dove ci sono stati, e le rivoluzioni più pacifiche hanno lasciato macerie ed economie da ricostruire. La delegazione egiziana al seguito di Morsi, venuta a Roma nel pieno della bufera causata dall'insulto al Profeta, non ha modificato il suo programma. Il Business council italo-egiziano ha lavorato come se non fosse accaduto nulla: gli egiziani hanno detto quello di cui hanno bisogno e noi quello che possiamo offrire.

C'è una differenza sostanziale fra il vero Nasser e il nasserismo, e Mohamed Morsi e i partiti islamici andati al potere. Questi ultimi credono fermamente nel libero mercato. Una delle prime cose che al Cairo si sono affrettati a fare, appena andati al potere, è stato di ripristinare le riforme economiche a favore degli investimenti stranieri fatte da Rashid al Rashid, un ministro di Mubarak. Su Rashid, fuggito negli Emirati, pende un mandato di cattura ma le sue riforme vivono perché funzionano.
Così a Tunisi. E in Libia: di Gheddafi non c'era nulla da salvare ma i libici hanno subito cercato di rimettere in moto la loro economia petrolifera. Finalmente anche in molti Paesi arabi economia e geopolitica vanno di pari passo. Se prima i dittatori non dovevano rispondere delle ingiustizie sociali, oggi i governi sono elettivi: per i loro successi e i fallimenti economici rispondono direttamente agli elettori. Se i nuovi governi non sapessero dimostrare di avere il potere per fermare le violenze, se fra noi e loro si sollevasse una barriera religiosa uguale a quella ideologica dei tempi della guerra fredda, ci sarebbe solo da perdere. Prendiamo il caso egiziano: l'interscambio con l'Italia vale 5 miliardi di dollari; i nostri investimenti sono da 1,5 miliardi «ed Edison ne ha appena firmato uno da 1,4», dice il nuovo ministro dell'Industria e degli investimenti Hatem Saleh (il successore di Rashid). Gli Stati Uniti garantiranno la cancellazione di un miliardo di dollari del debito estero egiziano e, prima degli incidenti, 50 uomini d'affari americani erano arrivati al Cairo a cercare nuove opportunità. Il Fondo monetario internazionale sta trattando un aiuto da 4,8 miliardi. Servono impianti industriali, infrastrutture, la nascita di una piccola e media industria che connetta crescita a giustizia sociale. Si ricomincia da domani.

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