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Questo articolo è stato pubblicato il 26 settembre 2012 alle ore 07:50.

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In un'ideale graduatoria delle promesse politiche lasciate cadere nel vuoto, anno dopo anno, al primo posto c'è la riforma costituzionale, a cominciare dalla riduzione del numero dei parlamentari. Ma subito al secondo posto troviamo la riforma o l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Si tratta di un «evergreen» su cui è stata spesa nel corso del tempo una quantità di parole inversamente proporzionale agli effetti pratici che ne sono derivati.

Nei cassetti delle commissioni parlamentari giacciono le proposte di legge che qualcuno, in buona o cattiva fede, ha via via depositato. E a voler fare una ricerca d'archivio nei giornali o nelle teche televisive si potrebbero raccogliere un gran numero di dichiarazioni enfatiche con cui tutti i capi partito garantivano al di là di ogni ragionevole dubbio che presto i meccanismi di elargizione del denaro alle forze politiche sarebbero stati modificati in nome della pubblica moralità.
Non è mai accaduto nulla. Prima dell'estate il prof. Pellegrino Capaldo lanciò un'iniziativa popolare con raccolta di firme volta a introdurre un sistema volontaristico che darebbe ai singoli la possibilità di detrarre dall'Irpef il contributo versato fino a una certa soglia. Ottenne un plauso quasi generale e la promessa di calare subito l'idea in una legge dello Stato. Il più convinto sembrava essere il leader dell'Udc, Casini. Ma l'acqua ha ripreso a scorrere sotto i ponti senza che alle parole seguissero i fatti. E sul tavolo c'è solo il referendum promosso da Di Pietro.

Oggi che il collasso del Lazio segna un nuovo record nella crisi del sistema – visto che gran parte delle regioni sono in condizioni simili – Berlusconi prende la parola per garantire che intende procedere alla riforma del finanziamento. Obiettivo ovvio è quello di tacitare una pubblica opinione attonita e ridurre l'onda d'urto della cosiddetta anti-politica. Ma, come si dice, si sta solo chiudendo la porta della stalla dopo che i buoi sono fuggiti da un pezzo.
L'assurdo andazzo che lo scandalo laziale ha portato alla luce ha radici profonde e antiche. Nessuno, a destra come a sinistra, ha mai affrontato la questione del finanziamento pubblico quando era possibile farlo con serietà. Ora che la legislatura è finita e qualcuno è nel panico perché teme che gli elettori presentino il conto, ecco che salta fuori una proposta estemporanea. L'ennesima. In realtà l'intervento di Berlusconi è il prodotto di un estremo affanno politico, una debolezza crescente che si lega alla ricerca disperata di un'idea, di un guizzo. Va in questa direzione la simpatia con cui l'ex premier guarda ai «grillini», come ha detto al nuovo sito dell'Huffington Post. Ma ormai lo scettro di re del populismo è passato di mano e il primo a saperlo è proprio lui.

Del resto, la disgregazione è in atto e non riguarda solo il Pdl. Scoperchiare la pentola delle finanze regionali può essere quasi peggio di Tangentopoli ai fini della stabilità generale. Per uscire dalla trappola ci vorrà molto di più delle solite promesse fuori tempo massimo. O anche della garanzia, offerta da Alfano, che Fiorito «non sarà più candidato»: ci mancherebbe altro, si potrebbe aggiungere. Di sicuro l'esplosione del Lazio delegittima più di un gruppo dirigente. C'è solo uno spazio ancora agibile: approvare la nuova legge elettorale, magari senza altre risse, e prepararsi alle elezioni.

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